UNO NUOVO SGUARDO SULLE ICONOGRAFIE FEMMINILI, di Anna Maria Farabbi

un nuovo sguardo sulle iconografie femminili

colloquio tra Anna Maria Farabbi e Alessia De Santis

entrando nel lavoro di Alessia De Santis come

tesi di laurea dell’anno accademico 2020/21,

titolo: un nuovo sguardo sulle iconografie femminili: temi, critica, proposte

relatore: Tommaso Casinianno accademico 2020/21

Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM, Milano

ambito: storia della critica d’arte

 

Da dove si origina la tua tesi? Chi ha scelto l’argomento e perché questa scelta. Vorrei cominciare proprio da qui il nostro incontro.

 

L’argomento é nato davvero per caso, da una riflessione pubblicata su Instagram. Era un periodo in cui scrivevo molto i miei pensieri su determinati argomenti sui social perché non avevo ancora l’opportunità di farlo da nessun’altra parte, non avrei neanche pensato che le mie riflessioni potessero interessare a qualcuno. Avevo scritto un post riguardo la statua Apollo e Dafne di Bernini, e quel post è stato il seme del lavoro che sarebbe nato successivamente. Alla fine è stato molto naturale, ho solo unito gli unici argomenti di cui so effettivamente qualcosa: arte e femminismo. 

 

Perché hai scelto di partire per la tua ricerca da un periodo storico come quello tra il ‘500 e il ‘600? Questa è la domanda che viene immediatamente spontanea, a cui tu rispondi nella Premessa perché è il primo momento in cui anche le donne riuscirono ad accedere alla professione pittorica e quindi è particolarmente interessante capire se ci sia stata davvero un’arte femminile contrapposta a quella maschile e come le pittrici si siano confrontate con una tradizione iconografica che le voleva oggetto e mai soggetto della rappresentazione. Vorrei che ci approfondissi questo taglio di prospettiva da cui sei partita.

 

Quando mi è stato detto dal professore che avrei dovuto scegliere un periodo storico da cui partire, la scelta è ricaduta subito su questi due secoli. In realtà non è il mio periodo preferito della storia dell’arte, anzi non l’ho mai amato particolarmente. Avrei certo potuto indagare il mio periodo artistico preferito, il Novecento, ma ritenevo molto più interessanti questi due secoli a cavallo tra Rinascimento e Barocco: volevo capire vedere come le artiste si sono inserite per la prima volta nella storia dell’arte, in una società maschilista e patriarcale. Ovviamente l’impostazione della società era la stessa anche nel Novecento, ma nel frattempo c’è stata una conquista di diritti non indifferente. Nel Cinquecento e Seicento le donne non potevano possedere proprietà, studiare, viaggiare o frequentare le accademie. Per questo mi sono chiesta: come possono esserci state pittrici di professione nonostante tutti questi impedimenti? Alla fine è risultato che le pittrici prese in analisi avessero tutte una biografia molto simile, basata sulla figura di un padre pittore che le istruisce alla professione. Questo elemento, decisivo per una pittrice, è molto meno influente per un pittore, che può scegliere più liberamente di intraprendere la professione. Per questo è anche difficile identificare le opere, che spesso vengono attribuite ai padri. Di questo argomento parla approfonditamente Caroline Criado Perez nel suo libro Invisibili in cui viene trattato il data gap, ossia la discrepanza quantitativa tra i dati raccolti sugli uomini e sulle donne. Per questo le opere femminili in letteratura, scienza e arti, sono state dimenticate, non tramandate o attribuite a parenti uomini.

Al di lá dell’aspetto pratico della professione, c’era ovviamente la questione dei temi trattati nella pittura dell’epoca. La prima parte del lavoro, i primi tre capitoli, si basano su un’analisi critica di alcune delle iconografie più ricorrenti in quei secoli, che siano storiche, mitologiche o bibliche. Per ognuna di esse spiego perché l’interpretazione data dal pittore sia sessista e da dove derivi questa impostazione. Un esempio molto calzante è la rappresentazione di Lucrezia, madonna romana morta suicida dopo aver subìto uno stupro. Nei dipinti che ho analizzato Lucrezia viene mostrata accondiscendente alla violenza, come ad insinuare che il suicidio sia stato un atto di pentimento per non affrontare le conseguenze delle sue azioni: questa é l’interpretazione che ne dà Sant’Agostino e che condizionerà le rappresentazioni pittoriche di questo episodio. 

Nell’ultimo capitolo ho invece analizzato come le stesse iconografie sono state interpretate dalle pittrici, e il risultato è molto diverso. Le vicende delle eroine vengono esaltate, mentre gli episodi di violenza sessuale sono implicitamente condannate tramite le espressioni di disgusto di chi le subisce, come in Susanna e i vecchioni di Artemisia Gentileschi.

In questi quadri pare emergere un’acerba consapevolezza del sessismo sistemico presente nella società, nonostante le pittrici prese in analisi non avessero la consapevolezza che abbiamo oggi sull’argomento. Per me è molto interessante capire non solo come rappresentassero le protagoniste delle più celebri iconografie, ma anche come si autopercepissero attraverso gli autoritratti. In queste opere vediamo la necessità di autoaffermazione, ma anche la consapevolezza del proprio corpo di donna sessualizzato. Insomma, queste artiste erano femministe? No, ma sicuramente rappresentano una prima riflessione sul ruolo della donna nel mondo dell’arte, sia in quanto oggetto dipinto che in quanto artista e quindi soggetto che sceglie come rappresentare la realtà.

 

Nel primo capitolo individui la parola “ratto” in una nominazione solita e tuttavia non rispondente al significato della rappresentazione iconografica relativa.  Indichi, in particolare, due episodi di rapimento, come i celebri “ratto di Proserpina” e “ratto delle Sabine”. Puoi narrarci lo scarto di camuffamento per così dire?

 

Il ratto è proprio il punto di partenza del percorso che ho deciso di sviluppare, perché è l’esempio più lampante di come stiamo evitando di parlare di violenza di genere. In ogni capitolo cerco di far capire come gli argomenti che tratto, che sembrano appartenere solo al passato, abbiano conseguenze concrete sulla realtà odierna. Infatti non é casuale l’affinità etimologica tra “ratto” usato per descrivere opere che parlano di stupro e “raptus” usato dai giornalisti per parlare una violenza di genere. In entrambi i casi si tratta di parole scorrette: é sbagliato usare ratto per parlare del rapimento e conseguente stupro delle Sabine ad opera di Romolo, ed é sbagliato usare raptus quando un uomo uccide la moglie a coltellate e poi nasconde il corpo. La maggior parte di questi episodi di violenza sono premeditati, proprio come Romolo aveva premeditato di rapire le Sabine per i suoi scopi. Ci nascondiamo dietro termini impropri per nascondere una problematica radicata nella società.
Il ratto delle sabine non è un mero rapimento, è uno stupro con il fine di contaminare un popolo: questa é una pratica molto diffusa in guerra ed é stata recentemente condannata dall’ONU. Ma questa storia, come molte altre, ci viene tramandata dal un punto di vista maschile, o se vogliamo dal punto di vista dei vincitori. Come dice Virginie Despentes “perché gli uomini lo stupro lo condannano, quello che fanno loro é sempre qualcos’altro”.
A questo punto gli amanti del termine cancel culture diranno che sto proponendo di cancellare la storia di Romolo; non è così. Sto solo proponendo di dare un’interpretazione nuova in base alla sensibilità odierna, grazie alla quale sappiamo che chi ha vinto non ha per forza ragione. Questo non vuol dire cancellare determinati episodi storici o mitologici, ma usarli con un nuovo intento pedagogico: mostrare la verità di Romolo,
Non usare il termine corretto quando stiamo palesemente parlando di una violenza sessuale scredita le vittime e non educa le persone alla consapevolezza.

La conseguenza é che non sappiamo parlare di violenza sessuale e non sappiamo riconoscerla quando l’abbiamo davanti o quando ci viene raccontata, o persino quando ci capita. 

 

“Lo stupro usato come mezzo per colonizzare un popolo e sottometterlo è un’arma di guerra ampiamente usata durante il colonialismo, ma solo nel 2019 l’ONU ha deciso di riconoscerla come tale. I romani erano effettivamente un popolo colonizzatore che puntava ad imporsi sulla penisola, e il modo migliore per farlo era unirsi con i popoli italici rendendoli romani attraverso matrimoni, consensuali o meno. E’ un’informazione che dai rilevante nella sua portata orribile. Continui, riferendoti ai romani: La testimonianza di questa indole è ravvisabile sia in opere come la Colonna di Marco Aurelio sulla quale sono scolpite numerose scene di stupri e violenze varie sulle donne delle popolazioni barbare conquistate dai romani, sia in fonti scritte come le Historiae di Tacito in cui lo storico racconta anche di stupri di natura omosessuale da parte degli ufficiali romani sui giovani ragazzi dei popoli sconfitti.” 

 

Non solo per la colonizzazione, ma la funzionalità riproduttiva delle donne è stata sempre centrale nel sistema patriarcale per intensificare il quoziente demografico. Penso al regime fascista in Italia.

 

Il nucleo della tua riflessione è: Finché continueremo a nasconderci dietro altre parole, a perifrasi o metafore, il rischio è che le donne continuino a non comprendere quando accade. Edulcorare un episodio di stupro, evitando oltretutto di chiamarlo con il suo nome, è un modo per sminuire l’atto e le conseguenze che ha sulle vittime.

 

Credi che le ragazze della tua generazione abbiano consapevolezza di questi lesivi processi culturali e, soprattutto, ritieni che ci siano delle aree geografiche nel nostro paese dove è più marcato questo incantamento?

 

Credo che negli anni sia stata sicuramente acquisita una maggiore consapevolezza sull’argomento, ma credo anche che la strada sia ancora molto lunga. Fino al 1997 era in vigore il matrimonio riparatore, che equivale a dire: se ti violano sei una merce danneggiata e nessuno ti vorrà più, quindi tanto vale farti sposare il tuo stupratore. Abbiamo imparato a riconoscere la violenza sulle donne nella sua forma più palese, lo stupro da parte di uno sconosciuto in un vicolo buio ad esempio. Non abbiamo imparato però a riconoscere altri tipi di violenza, più subdoli e sottili: la violenza da parte di un amico di cui ti fidi, o anche di un fidanzato, perfino di un parente. Oppure ancora la violenza mentre sei ubriaca, o ancora quando magari avevi già detto un “sì” ma poi ci hai ripensato. Ecco, questa violenza non sappiamo riconoscerla, ed è un problema. Credo che la fonte di questo problema sia che non educhiamo i bambini e le bambine alla cultura del consenso, così che i ragazzi non riescano a capire quando un gesto è molesto e le ragazze si sentano sempre in difetto e in colpa, mai legittimate a denunciare una violenza. Il primo caso che mi viene in mente é quello della ragazza che denunciò il figlio di Beppe Grillo dopo otto mesi dai fatti: l’opinione pubblica pretese di poter decidere che otto mesi fossero un tempo troppo lungo per denunciare, ma magari in quegli otto mesi neanche si era resa conto di aver subìto uno stupro. Non è che se non ti ritrovi nel massacro del Circeo allora sei una vittima meno valida, per dire. Eppure vige ancora questa gerarchia delle vittime di serie A e vittime di serie B. 

 

Nella tua ricerca, il riferimento al mito e alla sua lettura letterale è fondamentale. Credi sia una leva imprescindibile per accedere alle radici culturali e psicologiche del singolo e della comunità di oggi?

 

Non sono una studentessa di psicologia, ma penso di sì. Ho letto un po’ sull’argomento mentre scrivevo la tesi, e mi sembra una teoria molto valida. É necessario lavorare su quegli elementi che costruiscono l’immaginario collettivo al fine di cambiarlo, e se l’immaginario collettivo ti dice che é ok che Zeus usasse ogni stratagemma per abusare delle donne, allora è plausibile che la società intera pensi lo stesso tutt’oggi. Prendo Zeus come esempio su tutti i miti perché è qualcosa che vediamo tutti i giorni: un uomo importante che abusa di molte donne, ad esempio un qualsiasi produttore di Hollywood. E poi sulle pagine di giornale invece che leggere quanto sia assurdo quello che fatto, leggiamo quanto sia un uomo brillante, e quindi chissenefrega se ha stuprato qualcuno.
Citando Galimberti: “(i miti) sono idee che ci possiedono e ci governano con mezzi non logici, ma psicologici, e quindi radicati nel profondo della nostra anima, sono idee che abbiamo mitizzato perché non danno problemi, facilitano il giudizio, ci rassicurano”. Per questo sembra che la violenza sulle donne si sia cristallizzata nonostante l’evoluzione della società, presentandosi sempre nelle stesse forme in ogni epoca.

 

 

Nomini Christine de Pizan e la sua opera come prima scrittrice di professione in Europa. Ci puoi narrare di lei e della sua opera?

 

Christine de Pizan è una delle scoperte più belle fatte lavorando sulla tesi, non mi viene in mente un motivo valido per non studiarla a scuola quando si tratta il medioevo. Nata Cristina da Pizzano, si trasferisce in Francia in tenera età a causa del lavoro del padre. É la prima scrittrice di professione della storia occidentale, e anche la prima a trattare del suo stato di donna, madre e poi vedova. Proprio in quanto vedova amministra un patrimonio ma ha anche necessità di da vivere, e lo fa scrivendo. Le vengono commissionate molte opere, lei stessa ammette che probabilmente ciò accade perché vedere una donna scrivere è una rarità. Scrive La città delle dame, una specie di dissing ai poemi sessisti (ad esempio il De Mulieribus claris di Boccaccio) che circolavano all’epoca, nei quali era perfino scritto che alle donne piace essere abusate, fingono di opporre resistenza. Christine non ci sta, lei sa che non è vero: fa in letteratura quello che Gentilischi farà in pittura, ossia portare il suo punto di vista di donna sula violenza sessuale. Era una novità assoluta che una donna esprimesse certi pensieri. La città delle dame è a tutti gli effetti un’opera protofemminista: la scrittrice immagina infatti una città interamente governata dalle donne e parla delle loro qualità tramite esempi celebri della mitologia e della letteratura, come la matrona romana Lucrezia, screditata invece dai padri della chiesa cattolica. Nell’opera viene teorizzata a tutti gli effetti un’alleanza femminile che rivoluzionerebbe il mondo grazie alle capacità che le donne hanno, ma che gli uomini hanno paura di riconoscere. Centrale è anche il tema dell’istruzione femminile, che De Pizan sostiene venga impedita perché altrimenti le donne supererebbero gli uomini in tutto. Alla fine della sua vita la scrittrice, ritirata in convento, scrive un’ultima opera per elogiare Giovanna d’Arco agli inizi della sua carriera militare. Poi muore senza assistere alla triste fine della giovane che vedeva come speranza per il genere femminile, e per fortuna direi.
La cosa più importante che ci insegna la storia di Christine de Pizan è sicuramente che il genere femminile ha da sempre coscienza della sua condizione subalterna. Appena una donna ha la possibilità di studiare, ecco che riflette sul proprio ruolo nella società. La cosa bella secondo me è che nella sua opera non parla solo per se stessa, ma per tutte le donne. 

 

 

Tra tutte le figure femminili, nel mito o nella storia, che hai attraversato, anche con i relativi innesti nella pittura, quale di questa ti è politicamente più cara?

 

Domanda molto difficile. Per quanto riguarda la pittura, con il rischio di risultare banale, il mio grande amore é Artemisia Gentileschi, e lo è da quando a quindici anni ho visto le sue opere agli Uffizi. Penso di aver visto qualsiasi film e letto qualsiasi libro su di lei, è una figura che mi affascina moltissimo, nonché l’unica pittrice di scuola caravaggesca che apprezzo. Ha fatto sua la tecnica del chiaroscuro di Caravaggio per poi creare un proprio stile basato sul pathos e sulla teatralità, in linea con il gusto barocco del tempo. Ha dato nuove interpretazioni di alcune iconografie già esistenti, il suo pennello è perfettamente riconoscibile e anche in vita riscosse in un certo successo.

Ma di lei amo anche il coraggio che ha avuto durante il processo per stupro a cui è stata sottoposta, quando arrivarono perfino a torturarla.

Come scrittrice contemporanea non posso non nominare Virginie Despentes, che cito spesso quando parlo di violenza sessuale, é sicuramente la scrittrice che più mi ha aperto gli occhi. Il suo modo di scrivere crudo è come una doccia d’acqua fredda, ho sottolineato interamente il suo libro The King Kong Theory.

 

 

Molta parte del tuo studio individua le responsabilità del mondo cattolico nel modellare la nostra cultura ancora oggi con una notevole consistenza patriarcale e maschilistica, almeno nella sua sostanza. Perfino l’immagine di una bellezza sublimata delle sante propone un modello di purezza incontaminabile da emulare. Ci puoi narrare, entrando in alcune crune delle tue osservazioni?

 

Il capitolo sulla sessualizzazione del martirio (anche maschile) tocca diversi argomenti: il valore della verginità, il dolore e la morte. 

La verginità è la massima virtù per le donne, anche perché nel primo cristianesimo non si dava valore alla famiglia come si cominciò a fare nel 900 per motivazioni essenzialmente politiche. Lo stesso culto di Maria era poco diffuso finché nei Concili di Costantinopoli (381) e Trento (355) si decise la sua verginità prima, durante e dopo il parto. Non a caso Maria è l’unica a partorire senza dolore, condanna imposta per punizione ad Eva quando mangiò il frutto proibito. Eva e Maria, un binario in cui le donne cristiane si muovono aspirando ad essere promosse da Eva a Maria. Come? Attraverso la sofferenza, essenzialmente in due modi: la castità e il martirio oppure la maternità. Le prime sante martiri cristiane, come Sant’Agata, percorrono uno schema fisso: giovanissime (quindi per forza nubili e vergini) e bellissime, vengono per questo desiderate da un importante uomo pagano, al quale ovviamente si negano. Il messaggio implicito è che un rifiuto basti a tenere lontani gli uomini, che infatti non le violentano mai altrimenti la loro beatificazione sarebbe impossibile; però le torturano fino ad ucciderle. Per questo le iconografie hanno sempre qualcosa di erotico: un manipolo di uomini che guarda una giovanissima e bellissima ragazza subire delle torture, solitamente mezza svestita. La tortura più sessualmente esplicita é ovviamente quella di Sant’Agata a cui tolgono i seni, con tutte le implicazioni metaforiche che ciò comporta. Dobbiamo sempre ricordare che artisti e committenti erano uomini, quindi è normale sessualizzata persino l’iconografia di una santa. 

 

 Lavinia Fontana, Sofonisba Anguissola, anche la coeva Elisabetta Sirani, e Artemisia sono le pittrici che hai seguito, rendendo visibile le loro difficoltà, le sofferenze subite e, a tutt’oggi, il loro essere sotto luce.  Cito: “…L’altra differenza iconografica importante si può trovare nella tradizione dell’autoritratto d’artista, che per le pittrici diventa un modo per autoaffermarsi e indagare il ruolo che stanno svolgendo nell’arte e nella società del loro tempo. Esiste quindi un’arte femminile? No, ma esistono una serie di caratteristiche e scelte tematiche che possono considerarsi propri dell’esperienza di vita di una donna tra XVI e XVII secolo che accomunano le opere delle pittrici di questo periodo. Può esistere quindi uno sguardo femminile, un female gaze da opporre al male gaze che aveva permeato l’arte figurativa fino a questo momento.”

 

Ma, secondo te, nel corso dell’arte, intesa in tutti i suoi registri, esiste una espressività sessuata, un’identità riconoscibile per un femminile che si pronuncia non solo tematicamente, ma anche nella scelta formale adottata?

 

Questa è la domanda a cui cerco ancora risposta, perché ogni volta che ne parlo temo di sembrare sessista. Tuttavia devo dire di sì, secondo me c’è un’espressione artistica tipicamente femminile, anche se vorrei approfondire meglio l’argomento in futuro. Quello che ho notato finora, e che ho in parte esposto nell’ultimo capitolo, è una certa ricorrenza di temi e tecniche usati dalle donne nell’arte.
Premetto che questa riflessione non parte dal presupposto che uomini e donne siano geneticamente diversi o che abbiano qualità che per natura appartengono più ad un genere o all’altro. Al contrario, è una riflessione che nasce da fattori storici e sociologici, che nulla hanno a vedere con la “natura” degli esseri umani. Mi spiego meglio: storicamente le donne hanno vissuto oppressioni e privazioni di diritti, ma anche l’estrema sessualizzazione dei loro corpi e il tentativo di controllo su di essi. Questi elementi comuni alla vita femminile nella società finiscono inevitabilmente per ripercuotersi nel medium artistico scelto da una donna per esprimersi, che sia la pittura, la letteratura o il cinema.
Innanzitutto viene dato più spazio alla dimensione personale ed intimistica dell’individuo, le artiste riflettono molto su se stesse e sul loro ruolo. Probabilmente ciò accade perché per secoli sono state private della vita pubblica e relegate in casa, mentre gli uomini vivevano liberamente il mondo esterno, e infatti indagheranno la dimensione interiore molto più avanti. In Una stanza tutta per sé Virginia Woolf parla di questa necessità femminile di avere uno spazio d’espressione che non é il mondo circostante, ma la loro intimità.

Anche quando il mondo dell’arte si aprì alla presenza femminile, ci furono molte limitazioni. Ad esempio, non potendo studiare l’anatomia, la maggior parte delle artiste si concentra su generi “minori” come paesaggio, natura morta e ritrattistica. Anche se ad oggi non ci rendiamo conto, questi generi sono stati poco considerati per molto tempo, soprattutto quando le tele erano di piccole dimensioni. Poiché la maggior parte delle artiste non praticava per professione ma per diletto, le tele sono spesso di dimensioni ridotte. Tutte queste limitazioni finiscono per creare involontariamente una specificità dell’arte femminile, il che non è necessariamente uno svantaggio. L’esempio più calzante per me è rappresentato dalla coppia di artisti formata da Diego Rivera e Frida Kahlo. Diego era pittore di enormi murales usati per onorare ed esaltare il popolo messicano, era molto famoso in vita e le sue monumentali opere sono un inno al suo paese. Frida al contrario dipinge dei quadretti molto piccoli e soprattutto molto intimi, nei quali dichiara l’amore per il suo paese a modo suo. Non ci sono gli eroi della storia del Messico, ma rappresentazioni simboliche e metaforiche del Messico e dell’importanza che ha per la pittrice. Frida è in casa a dipingere questi piccoli quadri mentre Diego ha importanti committenze nazionali e internazionali per i suoi murales. C’è una discrepanza evidente nella sensibilità dei due, che non vuol dire che le opere di uno siano meglio di quelle dell’altra. Ma Frida, che ha cominciato a dipingere bloccata a letto nella sua cameretta, ha evidentemente una sensibilità mistica, onirica e surrealista che Diego non possiede.

Poi, ma non mi dilungo oltre, ci sarebbe da fare un lungo discorso sull’importanza che il corpo femminile riveste nella società e come le artiste lo abbiano interpretato e “riscattato” in qualche modo, portandolo da oggetto a soggetto attivo della rappresentazione visiva.

 

Quali sono i tuoi prossimi progetti e l’orizzonte dei tuoi studi o del tuo lavoro?

 

Ora sto proseguendo gli studi con una magistrale in comunicazione per i beni culturali presso l’ Accademia di Brera, dove ho avuto la fortuna di trovare un ambiente molto sensibile alla tematica della presenza femminile nell’arte. Ad esempio sto svolgendo un esame per il quale dovremo creare un catalogo sulla presenza artistica femminile nella Brera Napoleonica, e sto anche seguendo un workshop che riguarda le artiste presenti a Brera in senso più ampio e che sfocerà in una mostra. Mi sento molto fortunata in questo senso. Per il resto, ho cominciato a scrivere per diverse testate online che trattano di argomenti come arte, architettura, parità di genere e musica.

 

 Che cosa ne pensi di questa guerra? Secondo te è possibile ancora parlare, credere, praticare la non violenza?

Ovviamente è una situazione tremenda, intrisa del peggior machismo tossico come tutte le guerre. Non credo si sia mai praticata la non violenza e non credo ci sia la volontà di praticarla a questo punto.

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