IN CORTILE, racconto di Ivan Andreoli

Con l’unico senso in grado di percepire l’infinito guardava il suo futuro ma non scorgeva un orizzonte. Sulla sua bicicletta, una fiammante Tuder rossa, agognato regalo per l’esame di terza media, meandreggiava in cortile senza decidersi ad imboccare il cancello e abbandonare ogni indecisione. Non sapeva dove andare, ma poi ci andò. 

Questo ero io un pomeriggio di Maggio nel millenovecentosettantadue, subito dopo il congedo dal servizio militare. Giovane, diplomato, con la vita davanti, tutta da costruire. 

Oggi, con già dieci anni di pensione alle spalle, seduto davanti al mio computer, guardo dalla finestra il cortile della casa di fianco. C’è un ragazzino di forse undici-dodici anni che tutti i pomeriggi rompe i suoi compiti scolastici e palleggia sul selciato cercando di infilare un canestro che il padre gli ha attaccato al muro. E ci riesce spesso, è diventato bravo. Ma è solo, gioca da solo, prigioniero di un isolamento inaspettato assolutamente imprevedibile. Certo anche lui vorrebbe varcare il cancello e con la bicicletta, raggiungere gli amici, un campetto, un pallone condiviso, come ha certamente fatto in un passato molto recente, che adesso sembra già lontanissimo. Non so perché, guardando quel bambino, ho pensato a me ventenne, a quel pomeriggio di Maggio. Forse perché a entrambi, la vita ha imposto una tregua, un momento fermo. Oggi sembra davvero che il tempo si sia fermato, perché ha bloccato tutto, soprattutto le relazioni sociali. Siamo diventati dei satelliti orbitanti intorno al desiderio di rivederci di persona, di riabbracciarci, anche solo di toccarci. Di colpo abbiamo capito la felicità e l’importanza di tanti piccoli grandi gesti cui non davamo alcuna considerazione tanto erano scontati e abitudinari. Per la verità neanche prima, da pensionato, avevo una vita sociale molto intensa. Tuttavia avevo continuato a impegnarmi nelle mie passioni senza correre il rischio di annoiarmi. Certo, rispetto a quando lavoravo, tutto era molto cambiato. Soprattutto perché i genitori hanno continuato inesorabilmente ad invecchiare e a richiedere sempre maggiore attenzione e disponibilità. Tuttavia pur con meno tempo ho continuato a coltivare la mia grande passione: il cinema, anche se adesso lo trovo prigioniero dietro uno schermo di vetro. E poi i pochi amici conservati nel tempo o acquisiti in cammino anche in anni recenti. Con loro ho scambiato parole, idee, emozioni, piccole vacanze, e soprattutto serate in compagnia, fatte di cibi cucinati alla meglio, ma soprattutto del piacere di essere insieme, anche solo a parlare di nulla o più spesso, inevitabilmente, di politica: siamo tutti molto antifascisti. Imprecazioni e maledizioni in abbondanza. Poi di colpo il black-out. E una notizia che ti toglie il respiro: un tuo vecchio amico d’infanzia, un quasi compagno di scuola, l’unico che non sei mai riuscito a dimenticare nonostante le strade diverse intraprese e l’inevitabile allontanamento nel tempo e nello spazio cui la vita ci indirizza, si è ammalato. Il virus ha beccato anche lui. Forse un figlio glielo ha trasmesso. Chissà… 

La cosa tremenda è questa incertezza: non si vede, non sai come si prende, lo puoi respirare quando meno te lo aspetti e dove meno lo penseresti. 

Gli telefono dopo anni di silenzio. Lui risponde: che sorpresa! Parliamo, è sconsolato. Come potrebbe essere altrimenti? Cerco di fargli coraggio ma le parole suonano certamente retoriche, allora gli chiedo se posso fare qualcosa. Mi ringrazia, ma c’è già chi gli va a fare la spesa. Apparentemente non ha bisogno di altro. Nell’isolamento in cui si trova, gli basta soddisfare le esigenze primarie. Ha anche la fortuna di avere un altro figlio dottore che lo visita con regolarità. Penso che rispetto ad altri sia in una botte di ferro. Parliamo, ripensiamo alla nostra antica amicizia, alle discussioni che ci hanno diviso ma mai separato. Ai libri letti e dibattuti, ai film criticati o apprezzati, ai sogni confidati. Abbiamo sempre avuto gusti diversi ma non ci sono mai mancati punti d’incontro. Per me l’amicizia con lui era quella con la A maiuscola, quella da prendere ad esempio, da metro di paragone per misurare le altre. Chissà se è giusto fare paragoni o graduatorie, ma non riesco a  farne a meno. Sarà un mio limite. 

Sa della mia passione per il cinema e mi dice che ha visto un film ma non ci ha capito molto. Devo ammettere che, nello specifico, un po’ l’ho sempre giudicato di mente un po’ chiusa. Per me gli ingegneri restano intrappolati in schemi rigidi che gli impediscono di spaziare oltre i confini del razionale. Gliel’ho anche detto, un po’ scherzando, un po’ no. Anche questo era motivo di lunghe discussioni. Allora gli contesto di nuovo questa sua mancanza di visione nel valutare un’opera cinematografica che invece io reputo riuscitissima e piuttosto intrigante. Poi, quando nella mia solitudine, ripenso a quelle parole mi pento. Forse avrei dovuto essere più accondiscendente, sorvolare. Allora, alcuni giorni dopo, lo richiamo e mi offro di prestargli alcuni film della mia sconfinata collezione di DVD, così si passa anche il tempo. Accetta. Si affaccia dal terzo piano, improvvisa un cestino, lo lega a una corda e lo fa calare dalla finestra. Io lo riempio di tre-quattro dischi e lui li tira su. I giorni passano, gli scambi continuano, aumentano. Ci salutiamo sempre dall’alto in basso. Io giù nel cortile, esattamente sotto il canestro del ragazzino di prima. Abitiamo, infatti, in due case vicine. Ma a volte anche abitare vicini non vuol dire esserlo. Però questa strana malattia ci ha bloccato qui, non andiamo più in giro, ognuno per la sua strada, come si diceva una volta. Adesso siamo qui e a forza di film, di chiacchiere al telefono, di messaggini e WhatsApp, qualcosa è cambiato. La confidenza è tornata. Chissà come sarà quando la pandemia sarà finita, quando potremo tornare a vivere ”in presenza” come si dice adesso. 

Mi sento particolarmente ansioso. Chissà se tutto tornerà come prima. Dentro di me c’è qualcosa che brucia, senza fiamma, in silenzio, incontrollabile e un po’ è doloroso. Temo che questa pandemia possa essere un anticipo di chissà quale insondabile esistenza. Mi sembra di vivere ai margini di una civiltà futura che non so se sono curioso di conoscere. 

Forse, fortunatamente, non ne avrò il tempo.  

 

Ivan Andreoli

 

Luglio 2021

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