POESIA: Ranieri Teti, Alessandro Assiri, Alfredo Panetta, Gabriella Musetti, Lella De Marchi
ROMANZO: Alice Zanotti
SAGGISTICA: Valentina Cappi
FOTOGRAFIA: Hervé Guibert
e….l’arte tra bocca e cibo….
POESIA
Ranieri Teti, La vita impressa, Book Editore, 2022
È un codice genetico che deborda all’esterno, in un atto si direbbe rivoluzionario, il titolo dell’ultimo libro di Ranieri Teti edito da Book Editore. La vita impressa. Parole in cui si concentrano la fisionomia e il processo, il moto e la stasi, di essenza e linguaggio. Ovvero, un congiungersi di snodi che si fa cuneo perché tempo e spazio si solidifichino in un reale il cui fine è la proiezione minuziosa dell’eterogeneo stare al mondo.
La vita impressa. Ecco, se ne analizziamo ogni singola parola il la è il corpo che contiene quel vita in tutta la sua totalità, un baluardo a cui vita si appoggia, e che della vita anticipa il costante dispiegamento di coscienza, ossia quella varietà di angolazioni che ne fanno un compendio di frammenti e visioni metafisiche e tattili. Campi concreti e semantici, vita, in cui Ranieri Teti si immerge riuscendo a fissarne l’eterno dibattito e scontro, l’esigenza di farsi espediente per riflettere l’uomo.
La. Vita. E poi impressa. Un imprimere che è impronta e sigillo. E da cui nasce la domanda: come, la vita, quella che si dispiega nelle pagine di questo libro, si imprime sulla carta e da qui nella memoria? Per autocoscienza? Per la dialettica che è sottesa alla pulsione del frammento? O per le maglie e le aporie che attraggono la vita e da cui la vita si fa attrarre come struttura lacuna o fuga? O non piuttosto perché ad imprimere la vita è la pressione generata dalla sensibilità e dalla scala di pensieri di Ranieri Teti? Da quel suo incidere la vita sulla carta con la sua scrittura?
Suo. Sua. Con la sua scrittura. Ecco, qui sta il punto. Nel possessivo che si ripete e nella scrittura. Scrittura e non parola. Perché dire parola qui sarebbe riduttivo. C’è, è vero, la parola come oltranza e luogo pieno di presagi, ma è solo nell’incontro di Ranieri Teti con la parola, in quell’amalgamarsi che si fa scrittura, che nasce un “fiume che continua ad abbattersi sulla foce”, una luce che è frontiera e appoggio per fondare e indicare. Ma fondare e indicare cosa? Quegli indizi in cui si radica l’erranza di una nascita. Erranza e nascita che sono poi sinonimo di evento.
Da sola, certo, la parola già fonda l’esistenza e di per sé è già evento ma con la sua scrittura Ranieri Teti posiziona l’evento, dandogli delle coordinate che non sono assertive o impositive ma l’esatta materia di cui l’evento è costituito.
Ogni prosa poetica è un evento con una sua precisa anatomia, e insieme questi eventi si fanno “onde che si allungano nelle vertebre, come ombre sotterranee”. Usa il plurale Ranieri Teti ma più precisamente si dovrebbe dire onda, al singolare. Perché queste prose sono un’unica onda fondata su una pluralità di eventi, un’onda che si insedia e dispone nelle vertebre, che ne denota, in quanto ombra sotterranea, essenza e fisicità. Un’ossatura, le vertebre, che si fa percezione, acuta, e uno stare in guardia anche, quando l’ombra, ingigantendosi come è nella sua natura, le oscura. E, attenzione, non si sta parlando qui di un’ombra qualsiasi, ma di un’ombra sotterranea. Di un’ombra che restando nel segreto di se stessa proietta e deposita sulle vertebre ciò che appartiene alla sfera dell’abisso e del non apertamente dichiarato, mutando le vertebre stesse in qualcosa di abissalmente profondo. E il passaggio poi, dalle vertebre così definite alla scrittura, quella, lo si ribadisce, di Ranieri Teti, diventa un movimento inevitabile. Un movimento in cui la vita si dispiega in tutti i suoi lampi e scarti. Lampi e scarti di immagini e conoscenze. La luce e il nero di cui Ranieri Teti già ci ha parlato nella sua precedente raccolta, Entrata nel nero.
Onda. Onda di eventi. Vertebre. Luce e nero. Ma anche coerenza. Coerenza che dimora in ogni prosa poetica e nelle prose poetiche nel loro insieme. Una coerenza esteriore per come si presentano all’occhio i testi, per come è distribuita la parola, per la scelta, niente è lasciato al caso, di cominciare con la lettera minuscola e di non mettere il punto, di non chiudere il discorso, di non limitare o incastrare la vita, perché, del resto, come si potrebbe limitarla o incastrarla?
E poi, accanto a questa coerenza esteriore la coerenza interiore. La stessa nota, la stessa precisione, lo stesso modo di incidere e imprimere attraversa ogni testo. Segno di uno scavo potente e forte, di rigore e disciplina. Un rigore e una disciplina che sono poi profondo rispetto per la parola, per ciò che si scrive, e anche per se stessi e per chi si addentrerà nella linea d’orizzonte tracciata in ogni prosa poetica dalla scrittura di Ranieri Teti, una scrittura che sa donarci versi come questi:
dal moto celeste della luce piano piano tutto ritorna in un freddo restituito al respiro, dentro nuvole di anidride, nel pieno dell’inverno sull’acqua, sulla terra, con i versi ghiacciati dei gabbiani, nelle piene degli inverni, tra scintillanti legni di bufere per un lascito finale, un passo di libro con i versi dimenticati dove sono stati scritti, così alla fine di un libro un istmo, a un passo dalla fine l’apertura, la chiusa del film nel lungo metraggio del ritorno, uccelli che sorvolano l’acqua colore del freddo, visti dalla riva, nei minimi spostamenti delle navi nel porto, i segnali di arrivo o di partenza, in un lento addosso
Silvia Comoglio
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Alessandro Assiri, Come, Ronzani editore, 2022
La primavera duemilaventidue inaugura la nuova collana poesia di Ronzani editore, includendo la ricca eredità di Lietocolle, continuandola nella direzione di Augusto Pivanti in una collana dal nome Soleventi.
Il progetto riprende una coniugazione che da molti anni sta a cuore a Pivanti: la fotografia come volto speculare della poesia. L’impostazione torna, così come era stata la collana solo dieci di Lietocolle, a un’essenzialità di testi orientati in misura tematica.
Aprono Alessandro Assiri e Mauro Barbieri. dopo la partecipata introduzione di Augusto Pivanti.
Poesia asciutta, appuntita, tra l’esistente e la sparizione. In punta di luce, per così dire, giusto per mettere a fuoco un’amarezza irrimediabile dentro cui appaiono ritratti con dettagli accennati.
La fotografia di Barbieri le è affine, se non altro il suo bianco e nero nasce dal basso, quasi a terra. La splendida immagine iniziale raccoglie la ricerca di entrambi gli artisti, invocando la citazione iniziale scelta da Assiri
Come quei fantasmi che scendono dai treni
e tornano indietro
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POESIA
Alfredo Panetta, Ponti sdarrupatu, Il crollo del ponte, Passigli, 2021
Quando mori ‘nponti
nesci n’idea ‘i casa
cu n’angra ‘i cruci
sutta di fundamenti
Quando muore un ponte
nasce un’idea di casa
con un giardino di croci
sotto le fondamenta.
Alfredo Panetta, una delle voci più note della poesia neodialettale, del dialetto calabrese del basso ionico reggino, si apre in questa opera al crollo del ponte Morandi, illuminando una a una le vittime. Una luce lirica di umanizzazione per ciascun volto, affinché ogni io cantato si affacci al massacro con la propria identità, accusando e chiamando a rendere conto delle proprie responsabilità. Il tragico diventa freccia politica e civile.
Ho apprezzato molto il dono di una piccola pubblicazione d’arte in cento copie che ritrae questi splendidi versi estratti dall’opera con un aquerello di Lia Lovato.
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ROMANZO
Alice Zanotti, Tutti gli appuntamenti mancati, un ritratto immaginario di Amelia Rosselli, Bompiani, 2021
Scrivo subito: non mi piacciono le autobiografie inventate. Spesso attraversano personalità fulminate, per richiamare l’attenzione del pubblico e cercare la facile vendita del libro. Vorrei leggerne una che lentamente cuci una vita anonima, mediocre, indistinta. Se poi davvero esistono vite mediocri e indistinte.
Amelia Rosselli è un sole tragico, incandescente, ancora, secondo me, non propriamente vissuto e assimilato. Lei è l’oggetto del romanzo di Alice Zanotti, qui al suo primo edito.
Eppure, malgrado la mia premessa, indico quest’opera apprezzandola. Prima di tutto è scritta molto bene, con una parola tesa e lavorata senza cedimenti sentimentalistici e ammiccanti. Poi, mette in luce, con necessaria, studiata, documentazione, la preistoria della poeta. Le figure del padre e della madre, i fratelli Rosselli, gli intrecci storici e politici degli anni che vedono la resistenza ammagliare coralmente l’opposizione al fascismo. Rintraccia le radici esistenziali, sociali, culturali, del dolore deflagrato di Amelia Rosselli, seguendola, pedinandola nei suoi forzati esili, nei suoi spostamenti, nelle sue uscite da una persona cara all’altra.
Questo libro può leggersi con l’opera di Renzo Paris, Miss Rosselli, Neri Pozza, 2020, che invece ripercorre l’incontro tra i due scrittori.
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POESIA
Gabriella Musetti, Un buon uso della vita, Samuele Editore, 2021
Musetti si riaffaccia alla poesia dopo sette anni da La manutenzione dei sentimenti. Riapre con questo lavoro chiamando a sé Donatella Franchi, per la sua cartolina d’artista inserita nella bandella, in acquerello e inchiostro su carta di riso, e Chiara Zamboni, nella sua significativa e partecipata introduzione all’opera.
Le liriche colgono il limine, l’attimo dell’interruzione, la vera del pozzo da cui guardare tutta la narrazione della propria vita. Vite anonime di donne prima, successivamente, una dopo l’altra, i nomi imperdonabili, come Sylvia Plath, Virginia Woolf, Marina Cvetaeva, Amelia Rosselli, Ingeborg Bachmann, Gaspara Stampa, Saffo, Alfonsina Storni, Antonia Pozzi. Il filo femminile viene colto nella sua interruzione, anche volontaria.
Musetti lavora in una parola sintetica, impegnata nella sintesi: essenzialità, ritmo della successione drammatica ma, al tempo stesso, distaccata nell’osservazione dell’atto e del fatto. Ogni testo entra in verticale nell’identità della donna e apre a riverberi di amara riflessione.
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Lella De Marchi, Ipotesi per una bambina cyborg, Transeuropa Edizioni, 2020
Le due citazioni di apertura, una firmata da Lucrezio e l’altra da Anne Sexton, sono le punte auree del compasso dentro cui si svolge l’opera di Lella De Marchi.
La nominazione delle sillogi interne significa e individua la tematica poetica, il pensiero della sua ricerca. Dimora, come prima soglia, accede ai capillari fluttuanti dell’origine dell’identità, proponendo un flusso lirico psichico, in una sonorità che incide il lettore. Il verso si stende da margine a margine come parabole semantiche e filosofiche e ritorna a capo con nettezza apparentemente slacciata.
Tra il nulla e la nascita, il liquido amniotico fluttua e permette la propria ricreazione, interrogata esasperatamente, cantata acrobaticamente, più che amata. Nei riverberi delle figure, si esplicita la manifestazione di un femminile su cui attingere. Dall’identità alla trasformazione, in Trasgender e Gregor Samsa come ulteriori perni inquietanti, al tentativo di un’ipotesi di autoritratto che sfonda l’umano.
Ed è proprio dopo questo viaggio che emerge dalle acque amniotiche la bambina cyborg. Qui, più che la poesia scritta, ascoltiamo la voce performativa dell’autrice.
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SAGGISTICA
Valentina Cappi, Mettere in Ordine la differenza, Pratiche di relazione e dinamiche di autorità nella Sororità di Mantova, opera in autopubblicazione, lavoro di impaginazione a cura di Kaba edizioni – Al3vie, 2022
Valentina Cappi, ricercatrice presso il Dipartimento di Sociologia e Diritto dell’Economia dell’Università di Bologna, da sempre attenta alla questione di genere, compie la pubblicazione della sua tesi di Laurea Triennale, discussa nell’anno accademico 2007/2008, in conclusione del suo primo percorso di studi all’interno del Corso di Laurea in Scienze Antropologiche. Nella nota iniziale, l’autrice confessa che oggi avrebbe probabilmente affrontato e articolato il lavoro in modi e prospettive diverse. Tuttavia, acconsentendo a un invito, ha consegnato alle stampe lo studio senza apportarvi alcuna modifica. Ha fatto bene. E le sono grata.
L’opera è necessaria per introdurre all’Ordine della Sororità, dalla sua nascita a approdi di apertura e crescita. Lo studio apre con le parole stesse di Ivana Ceresa, sua fondatrice, tratte dall’intervista rilasciata alla stessa Cappi. Vale la pena citarle:
Vado in chiesa, siamo tutte donne e il parroco dice: “Pregate, fratelli”: l’evidenza è stata che eravamo tutte donne. Lo guardavo e dicevo: “ma cosa dice? Questo ci guarda, forse non ci ha contate, ma è impossibile non vederci”… ci guarda, eravamo a 20 metri eppure non ci vede e dice “Pregate, fratelli”. Ma non c’era proprio neanche un uomo. Per me fu come accendere… beh, intanto una grande luce, e poi anche un fiammifero sotto ai miei piedi, perché dopo la messa sono andata in sagrestia e gliene ho dette quattro. Gli ho detto: “Ma non ti vergogni, non ti vergogni a chiamarci fratelli che eravamo tutte donne?” E così è cominciata la battaglia.
I capitoli seguono attraversando con chiarezza esaustiva il significato del nome, la differenza significativa tra sororità e sorellanza, i passaggi di riconoscimento nell’ambito della Chiesa Cattolica, la regola, l’orizzontalità e la verticalità dei rapporti di sororità, la qualità dell’autorità femminile, la relazione tra parole e pratica, e le moltiplicazioni periferiche.
Cucita da interviste, la studiosa ascolta, registra e narra. La bibliografia finale consegna ai lettori e alle lettrici strumenti e affacci.
La copertina è tratta da la Carte de Tendre, o Carte da Pays de Tendre, creata da Madeleine d’Escudery nel 1654 e incisa da François Chauveau, mappa di un paese immaginario chiamato Tenerezza.
Lo studio porge letteralmente una rivoluzione al femminile dentro cui si innestano spiritualità, consapevolezza, pensiero politico e intimità di sorelle nell’esperienza. Sorelle anche atee.
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FOTOGRAFIA
Hervé Guibert
Lampi L’immagine fantasma, contrasto, 2022
Personalità di assoluto rilievo. Hervé Guilbert entra nel mondo con una scrittura sempre aderente alla torsione dell’io. Sempre, narra con estrema lucidità le pieghe intime della propria vita riportandole alla luce per una riflessione culturale e sociale fuori da ogni canone e prevedibilità. Ricordo l’intensità geniale della sua scrittura sia nel suo ultimo percorso biografico, ormai gravemente malato di aids, sia nell’incontro documentato con la nonna vecchissima.
In questa opera siamo condotti da un’imperdibile introduzione di Emanuele Trevi. Accediamo nel cuore della fotografia senza il contatto diretto con l’immagine. Tocchiamo con gli occhi la scrittura di Guibert e si aprono i suoi intestini, riusciamo a visualizzarli, vediamo interni, persone, attorno e dentro le fotografie.
Opera originale che rovescia l’approccio dell’immagine.
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l‘arte tra bocca e cibo peso corporeo e peso della parola, a cura di anna maria farabbi, Al3vie, Trivolzio (PV), 2022
E’ un libro che appena arriva tra le mani sconcerta, perché è solo di carta. Non è, come potrebbe sembrare invece, un purissimo gioiello d’una ceramica d’arte. E’ solo un purissimo gioiello di carta. Il colore, le ombreggiature lievissime che muovono la luce, la lucentezza che si lascia liscia ai polpastrelli, il razionalissimo quadrato della forma che tiene in grembo l’ancestrale mistero del cerchio. Poi le pagine spesse, quasi sabbiose dell’interno, nominate da numeri impressi a mano come quelle antiche impronte palmari sulle pareti delle caverne. E come da un antichissimo libro di velamenti e svelamenti fluiscono, cantano, formano, colorano, creano e disfano le parole donate da dieci voci, per cura, alla Pitonessa: sono voci letteralmente da sé disincarnate, per meglio far consistere la figura evanescente dell’anoressia la quale, che trascini in un turbine o anche solo sfiori, che le marchi a fuoco o le disfi a niente, penetra così a fondo la polpa e l’anima del vivente, da farsi ingannevole orizzonte di morte. Quasi ogni voce, poi, offre l’evocazione al vasto mondo digitale, dove i lettori questuanti possono vedere come esse hanno plasmato nell’arte il loro incontro con la medusea anoressia. La poeta Farabbi, davvero come una Sibilla, come la Pizia, si pone ad accogliere le domande dei lettori e a mediare le risposte delle dieci voci, premettendo in incipit la propria lesione, per poter sporgere più vicino al dolore dei sofferenti l’orecchio interiore, e quindi porgendo anche le mani con le sue offerte, quelle che può dalla sua esperienza di incontro con i sofferenti di disordini alimentari (e non solo): l’accoglienza del tu nella relazione del baratto, che è “tensione all’aperto dell’altro”, che è “attenzione” e “partecipazione reciproca” all’“esperienza unica che si sta vivendo insieme”; lo schizzo dell’ossatura che sostiene la forma dell’incontro: l’assenza di giudizio, l’uso della voce empatica, la proposta di oggetti che favorisca la sporgenza dell’io al di fuori, tra cui alcuni strumenti percussivi con una particolare sonorità. Ed infine, non ultima, la potenza della poesia, che si presenta nei versi di Farabbi (diario di una figlia poeta, ripresi da Abse) come protesa in amore all’unico orizzonte del tu con “l’umiltà di creare niente”; quindi nella sua grande in-utilità alle funzioni socio-economiche, per essere semplicemente “organica” e “congiuntiva” e “irrimediabile”. La poesia si presenta ad introdurre anche coi versi di Elio Pagliarani e Veronica Fallini. Maieutiche pure le domande o i commenti di Farabbi che con discrezione e rispetto indirizzano e interpretano ai lettori le voci. Quasi tutte sono di artisti: Marco Bellini, poeta, Elvira Aglini, narratrice, Ludovic Debeurme, fumettista e pittore, Sara Fruet, pittrice e medico, Marco Pozzi, regista cinematografico, Pietro Marchese, scultore, Mariafrancesca Garritano, ballerina, Giancarlo Palombini, etnomusicologo e filososo, Alberto Terrile, fotografo. Se a volte il disturbo alimentare ha attraversato con dolorose lacerazioni la loro vita, queste voci, però, dimostrano sempre un grande pudore e rispetto del tema affrontato, anche condotti dalla sensibilissima oggettivazione (e distanziazione da sé) che la costruzione dell’opera d’arte comporta, dopo avere vorticato nell’ideazione per le più profonde ed intime locazioni interiori. Particolare è la voce di Paola Bianchini, filosofa e psicologa, che la nostra Pizia ci fa ascoltare davvero dall’Oltre e che ci propone come “luminose molliche di pane” per il cammino, dai vari scritti che Paola ci ha lasciato in eredità. Illuminante la sintesi gentile, anzi: amorevole, del disturbo alimentare che Paola Bianchini ci dice:
“Il problema del corpo è il problema di quell’identità corporea, di quella vita che ruota intorno a quel corpo e che ha paura di non farcela, che non riesce a determinarsi, quindi a mostrarsi e si nasconde dietro a dei non-corpi: gravemente sottopeso e gravemente sovrappeso sono corpi congedati dal mondo che, proprio per la loro struttura, non possono più lavorare o viaggiare o amare o mettere al mondo dei figli.”.
Ed illuminante la modalità appassionata della sua proposta di avvicinamento a chi ne soffre:
“Bisogna cambiare le nostre domande, restituirgli la dignità di un domandare più alto, meno infantile, che accolga il problema della malattia e della sofferenza senza viverlo come condanna personale.”
“Se intendiamo promuovere lo sviluppo dell’altro dobbiamo preparare un terreno che lo accolga; questo è rappresentato da un linguaggio nuovo che escluda colpe, colpevoli, falliti e fallimenti.”
“ Chi è convinto che volere è potere si sbaglia. La nostra volontà deve prima incontrare i propri limiti.”
“In ogni età della vita, ma sempre più nelle situazioni critiche, occorre imparare a morire. Morire a sé stessi è perdere senza essere perduti: è nel buio avvertire che qualcuno non perde noi. Allora la speranza non è mia: appartiene a un orizzonte che spera in noi, che non dispera dopo tutte le delusioni e smentite che gli diamo. E non perché siamo forti e buoni, ma proprio deboli e manchevoli come siamo; così dobbiamo accettare di ammalarci, che si ammali qualcuno che amiamo, senza pensare a una sorta di destinazione fatale nel buio, nel male. Di contro, dobbiamo educarci nei problemi, a sperare, accogliere il non visibile di quella difficoltà.”
Un libro, quindi, che fa bene di bellezza, di pensieri e di salute. Un libro per tutti quelli che cercano il “senso delle cose”, il chiaro della luce, che sanno come essa – dice Paola Bianchini – non sia “alla base del faro”.
Intervengo al seguito della presentazione di Anna Maria Farabbi del saggio di Valentina Cappi, “Mettere in Ordine la differenza”.
Anche se redatto circa 13 anni prima, questa pubblicazione arriva a completare idealmente la recente uscita di “… e già guardava tutte con l’amore di sempre”, che, con la cura di Martina Bugara e Raffaella Molinari, traccia la “Cronaca della Sororità dal 2009 al 2021”. Quest’ultimo, da una parte, non risponde certo soltanto ad una pur legittima esigenza di non disperdere e passare “alle sorelle più giovani, alle nuove sorelle” la memoria dei venticinque anni dell’Ordine della Sororità e di “comunicare chi siamo ad altre/i”, ma anche, nel “celebrare quello che siamo state finora” – diceva la fondatrice Ivana Ceresa nel 2008 – fa sentire che “Se siamo ancora qui, è sano.”, che la “memoria prende significato, diventa storia del futuro”, che il “dopo … è già iniziato”. Proprio perché i vari passaggi, iniziative, eventi, sono – nel possibile – fatti rifiorire in modo aperto, cioè non come definitivi o definitori, ma come costruzioni in divenire, ancora ricche di pathos, di emozioni, incertezze e speranze, desideri e intenzioni, attraverso la proposta di lettere intimamente redatte e indirizzate, interventi-discussioni autenticamente problematici, sintesi di eventi che registrano spiritualità più che azione: “Abbiamo cercato di associare l’esperienza ‘mistica’ del silenzio di Isabelle d’Este al senso che per noi sorelle ha la pratica del silenzio, dell’ascolto e della nostra relazione con l’universo.”. Una memoria, appunto, aperta alla condivisione di altre che stanno fuori, all’appaiarsi di loro pensieri e emozioni, di domande. Dall’altra parte, il saggio di Valentina Cappi, pur puntualissimo nel tracciare il percorso dell’origine della Sororità, non si presenta certo come la narrazione della vicenda del divenire Ordine della Sororità, e quindi del suo ‘mettersi in ordine’, magari nel senso di un istituzionalizzarsi che non solo non è, ma che deraglierebbe completamente il senso di questa costruzione. Riesce Valentina Cappi a ben rendere la volontà che queste sorelle ebbero ad entrare nel pieno del mondo, per rimetterlo al mondo il mondo, cioè per produrre mutamento, verso un modo nuovo di essere delle donne e di far essere gli uomini verso le donne: Ivana Ceresa, ben consapevole dell’intento, aveva proposto la metafora di ‘piantare una spina nel fianco’, certo della Chiesa, ma non soltanto. Questa consapevolezza, le sorelle dimostrano di averla ad ogni passo con cui procedono a definire, anzi ri-definire rispetto al già stato, sperimentato, vissuto, i vari pilastri portanti della loro comunità. Come quando devono fronteggiare la prospettiva di una Regola, così difficile da ‘inventare’ e sentire non come gabbia, non come norma costrittiva, non come direttrice prefissata. Valentina Cappi dà spazio e voce alle perplessità e soprattutto ai differenti modi in cui viene non ‘accettata’, ma ‘fatta propria’: “gemmazione senza radice”;, ‘ordo’ e “trama” di una tessitura i cui fili ed intrecci sono le donne della Sororità, cuciti in modo che nessuna sia tralasciata; freccia direzionale che indica, ma “lascia liberi”; “base” che tiene unite, sulla quale esse hanno costruito la relazione fra loro. Come quando si viene a definire l’autorità, a partire certo da quella carismatica di Ivana Ceresa, ma anche andando avanti nell’organizzazione, fuori dai canoni del simbolico riconosciuto: e allora proporla come “ricchezza ineguagliabile” -dice Luisella – perché “significa che tu ti fidi di un’altra ma non ti consegni nelle sue mani (…) chi riconosce autorità chiede anche di essere amato”; e ancora precisando che nella Sororità la relazione tra le sorelle “non è amicale” -dice Antonella – perché “è un legame fortissimo che ha potenza di cambiamento capace di strutturare qualcosa di completamente diverso”, “un patto di riconoscimento reciproco”. Come quando devono affrontare e superare la paura di dispersione di fronte alla necessaria autonomia delle Sororità periferiche. Come quando si trovano a dare vita a pratiche liturgiche che non siano esibizioni di orgoglio, esultanza dogmatica, ripetitività frusta, ma lasciandosi libere di immaginare, riprendere modi mai considerati troppo umili, solo coniugati al sentire femminile. Consapevoli che l’azione politica per cambiare il mondo non si attua solo in campo sociale, economico, istituzionale, ma anche – “e forse soprattutto” – in ambito simbolico, cioè nel modo di vedere e immaginare il mondo. Ne risulta una Sororità aperta a ventaglio alla sensibilità delle donne che la fanno : “un cammino di libertà e spiritualità che, attraverso la separatezza femminile, fornisce un orientamento”, per Clelia; “un luogo femminile dove l’incontro col divino è mediato da una sensibilità femminile” per Luisella; una possibilità di potenziare “le qualità che sono delle donne” non riconosciute dalla società per Bruna; “un cammino di ricerca interiore, che permette un accesso privilegiato ad una dimensione dell’invisibile (…) che può avvenire dentro altre (rispetto alla chiesa cattolica, nota mia) chiese e anche al di fuori delle chiese” per Raffaella.
Ho anch’io letto e apprezzato molto il saggio antologico “L’arte tra bocca e cibo”, a cura di Anna Maria Farabbi: si tratta di un lavoro encomiabile che vuole sottrarre all’oblio di comodo tutto un insieme di problematiche esistenziali vive e laceranti che attraversano la nostra società e che vengono qui esposte con ricchezza autentica di testimonianze e lucidità di argomentazione e dibattito culturale. Sono lavori che servono, che ci portano a un confronto non compiacente con la complessità del reale e con le difficoltà, le contraddizioni, le ferite esposte di una civiltà che ha sempre più bisogno di cura, di nuove sensibilità e confronto.