OIKOS, L’UOMO E LA NATURA TRA OMERO E IL FUTURO PROSSIMO, a cura di Anna Maria Farabbi

Vicenza ha riaperto la luce con potenza nella presenza: a cura di Alberto Camerotto, Filippomaria Pontani, Daniela Caracciolo, Dino Piovan e Stefano Strazzabosco, si è svolto un tappeto di eventi tra venerdi 8 Aprile e sabato 9. In poco più di ventiquattr’ore, si sono spalancate le porte maestose della Galleria d’Italia Palazzo Montanari, del teatro Olimpico, della Biblioteca Bertoliana Palazzo Cordellina, colmandole con voci di qualità nel pensiero e nel canto.  

L’iniziativa ha avuto la collaborazione degli studenti e dei docenti del Liceo A. Pigafetta, e del Liceo Classico G.B. Brocchi Bassano Del Grappa, che hanno proposte letture e musiche. 

Nel 2020, a cura di Stefano Strazzabosco,  fu edita una mirabile antologia poetica dal titolo Oikos. Poeti per il futuro, con premessa di Filippomaria Pontani e Alberto Camerotto e disegni di L. De Nicolo, per Mimesis. Il convegno si è avvalso anche dal contributo di quest’opera internazionale, centrata nella tematica ecologica, oltre che esistenziale, sociale, culturale.  

Questi pochi accenni possono bastare per intuire il notevole lavoro di ideazione e organizzazione, dentro cui un’intera città ha ospitato maglie di personalità e pensiero sotto il titolo  

Classici Contro  

Oikos, l’uomo e la natura tra Omero e il futuro prossimo 

 L’università Ca’ Foscari   Venezia, Dipartimento di studi umanistici e l’Associazione Italiana di Cultura Classica Venezia, il Comune di Vicenza, hanno dato il proprio sostegno, assieme ad altre forze. 

Osservando il programma, con i dettagli dei vari relatori, ci si accorge, secondo me, della qualità principale di questa tessitura in una interdisciplinarità offerta negli spazi della storia e della bellezza, privilegiando con  massima attenzione il pubblico degli studenti. 

 

Di seguito, pubblichiamo la locandina con il programma, la relazione di Chiara Spadaro dell’Università di Padova, e il mio contributo. 

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Classici Contro – Oikos, 8 aprile 2022, Palazzo Leoni Montanari, Vicenza

Donne, barene e api. Un erbario lagunare

Chiara Spadaro*

 

“Uomini, boschi e api” è il titolo di un libro di Mario Rigoni Stern, pubblicato nel 1980. Nella prima parte di questa raccolta di racconti, l’autore ricorda le vicende della Seconda guerra mondiale, da lui vissute in prima persona. Poi, ci fa trovare “storie di animali selvatici e di uomini che vivevano, e qualcuno ancora vive, in un ambiente sempre più difficile da conservare”, come ha scritto lo stesso Rigoni nel presentare la raccolta: “cose che ancora si possono godere purché si abbia desiderio di vita, volontà di camminare e pazienza di osservare”.

Questi elementi – il desiderio, il cammino e l’osservazione (insieme all’ascolto) – accompagnano anche la mia ricerca di dottorato in geografia, alla scoperta delle filiere alimentari negli ambienti lagunari (la Laguna di Venezia, sulla quale mi concentro ora, e l’Albufera di Valencia, in Spagna), da cui prende avvio questo mio intervento. L’ho intitolato “Donne, barene e api” nel tentativo di dare una rilettura ecofemminista del titolo di Rigoni Stern, riambientandolo nella Laguna veneziana: da qui questa metamorfosi, e un richiamo all’idea dell’erbario – che spiegherò meglio a breve.

L’incontro con il femminile ha avuto un impatto importante nella mia ricerca, che si sviluppa dentro mondi – quello agricolo e, soprattutto, della pesca – spesso dominati dagli uomini. “Passano le donne, raccolgono semi e corrono”, si legge nella poesia di Francesca Gargallo nella raccolta “Oikos. Poeti per il futuro”, che ci accompagna nelle giornate vicentine dei Classici Contro 2022. 

Secondo la FAO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, le donne rappresentano circa la metà della forza lavoro agricola globale; diversi sono i numeri in Italia, dove solo un’impresa agricola su tre è gestita da donne e il 3% dell’occupazione femminile è in agricoltura. Eppure, è ancora ampio il divario di genere nel settore alimentare e agricolo. Pur essendo così importanti per la sovranità e la sicurezza alimentare, le donne agricoltrici hanno, ad esempio, maggiori difficoltà nell’accesso alla terra, alla formazione, alle tecnologie e al credito.

C’è poi la barena, anziché il bosco di Mario, uno dei paesaggi più caratteristici della Laguna di Venezia, fatto di “brevi affioramenti argillosi o fangosi”, come ha scritto il poeta gradese Biagio Marin, con una vegetazione fatta di essenze diverse: artemisia, limonio, astro marino, salicornia, porcellana e sparesina selvatica. Un ambiente in pericolo, come vedremo, e strettamente connesso alla vita delle api e alla produzione di un miele gourmet, come si direbbe oggi, leggermente salato: quello di Limonium. 

A proposito delle sue api, Mario Rigoni Stern racconta che, nel mese di aprile, “alla fioritura del tarassaco, quando il giallo sarà per settimane il colore predominante su tutti i prati e seguirà sui dossi l’esposizione solare, abbondantissima diverrà la produzione del miele”. Se ci spostiamo dai prati di montagna alla barena lagunare, il colore è quello viola, dal fiore di Limonium, ma è sempre meno visibile, e la produzione di miele sempre più scarsa.

Le api – un corpo “sociale di interconnessione di tanti piccoli cervelli individuali”, come l’ha definito il naturalista francese Rémy Chauvin – non possono vivere fuori dalla comunità e, in questo senso, ricordano le isole su cui andiamo a navigare. E non mi riferisco solo alla concezione geografica, ma alla definizione delle “isole come gruppi sociali su piccola scala dove le interazioni culturali sono densamente intrecciate”, data dallo scienziato sociale giapponese Juni Suwa. Oltre a offrirci questo insegnamento cooperativo, le api, così come le isole, se osservate con attenzione, possono anche aiutarci a capire qualcosa di più dell’ambiente che abitiamo: “Dovrò stare attento perché dal comportamento delle mie api osservato in questi ultimi giorni mi sembra di capire che pure loro annuncino carestia”, scrive sempre Rigoni Stern in Uomini, boschi e api.

“Nuovi intrecci fra discipline, come di fatto è avvenuto nella geografia con i fecondi rapporti con la letteratura e con l’antropologia, oltre che con la storia”, come ricordava il geografo Massimo Quaini, ci possono aiutare ad attraversare i confini dell’arnia, della nostra casa, dell’isola, per entrare nella casa comune con una nuova consapevolezza dei limiti ecologici che noi stessi abbiamo imposto a Gaia, come viene chiamata la Terra. 

Questa interdisciplinarità caratterizza anche il mio percorso di ricerca: mi sono laureata in antropologia, sono una giornalista ambientale e ora sto per concludere un dottorato in geografia utilizzando i metodi della storia orale. Tuttavia – come ci suggerisce il progetto “Gaia Global Circus” – “Gaia non parla la nostra stessa lingua. Non siamo abituati ad ascoltarla. Come rendere udibile la sua voce? Come far esistere entità (umani, oggetti, categorie) parlando in loro nome?”. 

Alla ricerca di questo linguaggio comune, saliamo in barca e mettiamoci in ascolto dell’acqua.

 

Navigando, facciamo “mente locale”, come suggerisce l’antropologo Franco La Cecla: attiviamo, cioè, quel “processo dal perdersi all’orientarsi (che) è la condizione dell’ambientamento che costella storie personali e collettive”. Se “la mente locale è l’espressione della facoltà di abitare”, nel caso di una ricerca in Laguna avremo bisogno dell’aiuto di barcaioli e pescatori, forse dei giovani che sfrecciano sui barchini, o semplicemente di cittadini che si spostano sull’acqua in modo indipendente, senza aspettare i vaporetti (un’attesa spesso fertile, di cui sarebbe interessante parlare). 

In una scena del film “Atlantide”, del 2021, ambientato nell’isola di Sant’Erasmo, il giovane protagonista, Daniele, dice che il barchino è la sua casa. In Laguna la barca diventa casa, costruita con materiali naturali: un corpo legnoso che si muove nell’arcipelago. O meglio, nell’“aquapelago”, come è stato definito dallo studioso Philip Hayward. L’obiettivo di questo neologismo era provare a restituire “un concetto ampio del territorio e dell’esperienza umana di un ambiente marino e terrestre, interconnesso e interattivo”. Una geografia in cui gli spazi acquatici – e cito ancora – “sono attraversati in un modo che è fondamentalmente interconnesso ed essenziale per l’abitare” stesso della comunità locale e per il suo senso di identità. 

In questo percorso anfibio, ho immaginato che alcune piante potessero aprirci delle finestre sulle microstorie delle comunità contadine lagunari, da cui partire per riflettere su più ampie dinamiche di scala globale. Da qui la suggestione dell’erbario. 

Nei suoi lavori, il botanico Stefano Mancuso ci ricorda che noi animali rappresentiamo lo 0,3% della biomassa, le piante l’85%. “Senza le piante, gli animali non esisterebbero; la vita stessa sul pianeta, forse, non esisterebbe e, qualora esistesse, sarebbe qualcosa di terribilmente diverso. (…) Esistiamo grazie alle piante e potremo continuare ad esistere soltanto in loro compagnia. Avere sempre chiara questa nozione ci sarebbe di grande aiuto”, scrive ne “La nazione delle piante”. Anche per questo, “non è possibile raccontare una storia senza incappare nei suoi abitanti più numerosi”: rimettere le piante al centro della narrazione aiuta a ricordarci che è da questi esseri viventi che dipende la vita sulla Terra.

Nel nostro erbario, oggi ci sono tre piante – selvatiche e, in alcuni casi, addomesticate – associate a tre storie che ci fanno attraversare tutta la geografia della Laguna di Venezia, da nord a sud: il Limonium a Lio Piccolo (Cavallino Treporti), l’ortica nell’isola di Sant’Erasmo (Laguna Nord) e la cicoria a Chioggia, nel margine mediterraneo della Laguna. 

Di queste piante, vorrei mostrarvi anche la parte nascosta, l’apparato radicale, perché, come ci dice La Cecla, spesso, le tracce della cultura dell’abitare sono invisibili. “Non sono infatti i resti visibili a rendere giustizia alla cultura dell’abitare”, ma “questa consiste anche e soprattutto di tutti gli invisibili processi”. 

Sono delle immagini che abbiamo a disposizione grazie al lavoro del gruppo di ricerca dell’Università di Wageningen nel progetto “The Root System Drawings”, consultabile online, frutto di 40 anni di scavi degli apparati radicali delle piante svolti in Europa. 

Un’altra suggestione che vorrei condividere viene dal “Chernobyl Herbarium”, con il quale Michael Marder e Anaïs Tondeur, ci affidano trenta fotogrammi di piante radioattive e frammenti di riflessioni, ricordi e immagini, uno per ogni anno trascorso dall’esplosione che ha scosso e distrutto una parte della centrale nucleare di Chernobyl, in Ucraina. Era l’aprile 1986. Penso che in questi tempi di guerra sia importante scoprire il loro prezioso lavoro di testimonianza, recentemente tradotto in italiano dalla casa editrice Mimesis. 

Ma entriamo adesso nel vivo delle storie lagunari, attraverso successivi approdi. 

 

Il primo è a Lio Piccolo: siamo in un piccolo borgo della Laguna Nord, nel Comune di Cavallino Treporti, e la pianta che ci accompagna è il limonio, o Limonium Mill. – dal nome del botanico inglese che l’ha classificato nel 1754, Philip Miller. È una pianta perenne che vive nei terreni argillosi imbevuti d’acqua salmastra e fiorisce tra giugno e settembre.

È stata Ilaria, apicoltrice di Santorso (Vicenza), a farmi scoprire Lio Piccolo: dal 2013 porta le api “al mare”, come dice lei, per produrre il miele di barena, che è un miele monoflora di Limonium, dal gusto sapido, molto particolare. Rosanna, che qui è nata ed è figlia di mezzadri, ospita gli alveari di Ilaria nel suo orto-giardino, accanto a filari di giuggioli secolari. 

Come spiegano gli apicoltori che frequentano questo territorio, nei primi anni Duemila in barena si trovavano solo pochi alveari e si riuscivano a fare produzioni importanti di questo miele pregiato. Ma poiché la produzione di miele sta diminuendo di anno in anno, a livello nazionale, negli anni successivi sempre più apicoltori hanno popolato di api la barena: con le sue fioriture di fine estate, questo paesaggio rappresenta infatti per gli apicoltori un’occasione per aggiungere un’altra produzione alla fine della stagione (dopo il millefiori, il tiglio, l’acacia), per integrare il reddito. Questo sovraffollamento di alveari nella barena (a Lio Piccolo, e non solo) ha generato una competizione tra gli insetti, in un territorio che, nel frattempo, è diventato sempre meno fiorito per le preoccupanti siccità prolungate, seguite da intense piogge concentrate e fenomeni alluvionali, ma anche per la salinizzazione dei terreni e la progressiva erosione dovuta al traffico delle barche e ai fondali sempre più profondi, che lasciano scorrere molta acqua rispetto al passato. 

Le ragioni per cui il paesaggio della barena è minacciato e la produzione di miele si riduce progressivamente, quindi, sono le stesse, e sono riconducibili al riscaldamento globale, in particolare alla scarsità d’acqua e all’impatto dell’azione umana sul territorio. Così, mentre si erode l’estensione e la vitalità di questo paesaggio, vengono portate sugli argini lagunari sempre più api, per riuscire a produrre un miele ormai di nicchia, in vasetti sempre più piccoli, venduti a prezzi molto più alti rispetto agli altri mieli. 

Ma vista da un’altra prospettiva, anche se la produzione di miele è scarsa, in questo paesaggio sempre più minacciato, grazie a un insetto sociale – l’apis mellifera – si è costruita nel tempo una relazione sempre più salda tra Ilaria, l’apicoltrice, e Rosanna, che custodisce le api nel suo orto. Pochi vasetti di miele di barena che hanno però rafforzato negli anni alleanze intra e interspecie, generando quelle “parentele di natura imprevista” di cui ci parla la filosofa Donna Haraway.  

 

Anche nel nostro secondo approdo c’è una donna ad accoglierci: Fiorella. Siamo su un’isola della Laguna Nord famosa per essere stata storicamente “l’orto di Venezia”, i cui prodotti si vendevano al mercato di Rialto: Sant’Erasmo. 

Quest’isola, in realtà, è famosa soprattutto per la produzione di carciofi: il carciofo violetto di Sant’Erasmo è un presidio Slow Food: è sempre più richiesto e, nel tempo, è diventato quasi una monocoltura. Sono ancora numerose le aziende agricole sull’isola, che coltivano carciofi e altri ortaggi. Tra queste I Sapori di Sant’Erasmo è un’azienda a conduzione familiare, guidata dai fratelli Finotello, che hanno costruito una relazione diretta con i consumatori: due volte alla settimana raccolgono le verdure e le caricano in barca, per portarle direttamente ai clienti che le hanno ordinate, consegnandole nei campi del centro storico di Venezia. 

Ma se lasciamo per un attimo da parte i carciofi e gli pregiati altri ortaggi dell’isola, ci accorgiamo di un’altra pianta: l’ortica. Fiorella, moglie di uno dei due fratelli dell’azienda agricola, l’ha selezionata dai campi dove cresceva selvatica, soprattutto attorno agli abbondanti vigneti, e l’ha trasformata in una pianta coltivata, crescendola in un campetto ai margini dell’azienda. Quando ha iniziato a valorizzare l’ortica, aveva già in mente una filiera: quella tessile. A meno di un chilometro dall’azienda, si trova la Torre Massimiliana, un’ex polveriera austriaca di forma circolare, costruita all’inizio del 1800. È qui che Fiorella si trova con altre donne dell’associazione “Daghe do ponti”, un gruppo di “agrisarte” che lavorano con le piante tessili che trovano sull’isola, selvatiche e coltivate. Un progetto di filiera corta e circolare che intendono sviluppare per valorizzare il patrimonio e le risorse agricole di un’isola che non ha grandi attrattive turistiche. 

 

L’ultima tappa, che invece è di segno maschile, ci porta nella Laguna Sud, a Chioggia, e in particolare nel mercato ortofrutticolo di Brondolo: la pianta iconica di questo spazio è il radicchio rosso, Cichorium Inthybus. Questo mercato è una struttura imponente, voluta per aggregare gli ortolani e far incontrare la domanda e l’offerta agricola; si trova qui dagli anni ‘70, dopo essere stato in centro, dove, a un certo punto, infastidiva lo sviluppo turistico di Sottomarina. 

L’ortolano abita a Sottomarina e la peculiare condizione ambientale di questo territorio gli consente di avere in orto le primizie un mese prima rispetto ad altre zone. In questa geografia alimentare di confine, tra la terra e il mar, la sabbia calda e l’influenza del mare hanno sempre consentito a Sottomarina di anticipare i prodotti di altri luoghi, vincendo sul mercato.

Una delle caratteristiche del mercato ortofrutticolo di Brondolo, dove il prodotto viene venduto all’ingrosso, è la vendita con l’“asta a orecchio segreto”. Al mattino, i produttori consegnano le casse di ortaggi al mercato, che sono sistemate in file. C’è un astatore la cui bravura sta nel non far capire ai grossisti com’è la giornata, perché non tendano al ribasso. Lui si mette al centro e loro gli suggeriscono l’offerta all’orecchio, coprendosi la bocca con le mani, perché nessuno possa leggergli le labbra – come si vede in questa foto degli anni ‘60. Una scena che si svolge ancora tutte le mattine alle 10.00, ma in un mercato sempre più vuoto di ortolani e prodotti agricoli. I numeri lo mostrano in modo evidente: secondo i dati del Censimento dell’Agricoltura, nel 2010 erano 536 le aziende a Chioggia (999 nel 2000), e gli orti familiari erano 54 (109 nel 2000). In questi anni c’è stata un’importante diminuzione del numero di aziende, ma anche un aumento delle loro dimensioni: un modello di agricoltura industriale che oggi si dedica quasi esclusivamente al radicchio rosso. 

L’introduzione della “crocchiante sensuale rinfrescante carezza del radicio” – come la definisce Elio Zorzi nel suo libro, “Osterie veneziane” – ha profondamente mutato la vocazione orticola del territorio, rivoluzionandone l’economia e cambiando per sempre il ruolo degli ortolani. Il radicchio rosso di Chioggia è stato introdotto negli anni Trenta, nel tentativo di imitare i fortunati radicchio rosso di Treviso e variegato di Castelfranco, e per la selezione naturale è diventato una varietà più facile da coltivare e presente sul mercato durante tutto l’anno (tranne che nei mesi di aprile e maggio). Ma il suo grande successo ha comportato, tra gli anni Sessanta e Ottanta, una diminuzione delle altre produzioni locali. La biodiversità e l’autoproduzione delle sementi erano le caratteristiche fondamentali dell’orticoltura chioggiotta, ma in poco tempo si è passati a una produzione monocolturale di radicchio, orientata dagli interessi commerciali e delle grandi ditte sementiere. 

A proposito della progressiva sparizione dell’agricoltura contadina su piccola scala, come abbiamo visto nel caso di Chioggia, torna alla mente il cortometraggio “Omelia contadina”, ambientato sull’Altopiano dell’Alfina (Viterbo). In questo lavoro si “celebra” la morte dell’agricoltura contadina e uno dei contadini afferma: “Ci avete seppellito, ma non sapevate che eravamo semi”. 

È quel “gesto che significa per sé / e che non chiede il permesso di esistere / a nessun altro che a sé stesso, se”, come dice Stefano Strazzabosco nella sua poesia per la raccolta Oikos, e che ci conduce a una questione della sovranità alimentare centrale e spesso trascurata, soprattutto nel dibattito italiano: l’importanza di tutelare i sistemi sementieri locali. 

La ricerca che sostiene il modello agricolo industriale, infatti, produce nuove varietà di semi che sono uniformi, distinte e stabili, eliminando nel lungo periodo la diversità dai sistemi agricoli. Procedendo di questo passo, “dove andremo a recuperare diversità quando tutta l’agricoltura sarà uniforme e industrializzata?”, si e ci chiede Riccardo Bocci di Rete Semi Rurali dalle pagine del mensile Altreconomia. La risposta sta in un necessario e urgente cambio di paradigma rispetto a quello oggi dominante dell’agricoltura industriale uniforme; sta nella diversificazione dei sistemi agricoli e nel riportare l’evoluzione della diversità nelle mani dei contadini, e nei campi. 

 

Per questo resto profondamente convinta della portata rivoluzionaria di un gesto apparentemente semplice come l’ascolto di queste voci contadine, urbane e rurali, che spesso restano ai margini. E anche della successiva ricerca delle forme più rispettose per riportare le storie orali in scrittura. 

Per concludere nel segno di queste storie, quindi, voglio ricordare quel che scriveva Massimo Quaini: che “la geo-grafia è scrittura della terra” – forse anche della Terra con la T maiuscola, di Gaia – e il suo compito “è quello di conservare nel tempo la memoria effimera degli uomini e delle donne senza scrittura”. 

E decisamente “importa quali storie creano mondi, quali mondi creano storie”, come ha scritto la Donna Haraway. Tenendo presente, come dice sempre lei, che “abbiamo bisogno di storie (e teorie) che siano abbastanza grandi da radunare le complessità e mantenere i margini aperti e desiderosi di nuove e antiche, sorprendenti connessioni”. Per dirla con le parole di un altro poeta, l’argentino Juan Gelman: “Scrivere senza raccontare è come vivere senza vita. Le parole saranno innocenti, ma non lo è la loro relazione”. 

 

Bibliografia

 

Aït-Touati F. e Latour B. (2007), “Interlude: Performing Gaia”, in: Brightman, M., Lewis, J. (eds), The Anthropology of Sustainability. Palgrave Studies, in: Anthropology of Sustainability. Palgrave Macmillan, New York

 

Bocci R. (2021), “Le diversità colturali europee sono in pericolo”, Altreconomia 243, Milano

 

Chauvin R. e Muckensturm Chauvin B. (1994), Il comportamento degli animali, Laterza, Bari-Roma

 

Gelman J. (2001), Valer la pena, Grupo Editorial Planeta S.A.I.C/SeixBarral

 

Hayward P. (2012), “Aquapelagos and aquapelagic assemblages”, in: Shima: The International Journal of Research into Island Cultures, 6(1), 1–11

 

Haraway D. (2019), Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero Editions

 

Haraway D. (2015), “Anthropocene, Capitalocene, Plantationocene, Chthulucene: Making Kin”, in: Environmental Humanities 6, no. 1

 

La Cecla F. (1988), Perdersi. L’uomo senza ambiente, Editori Laterza, Bari-Roma

 

Mancuso S. (2019), La nazione delle piante, Editori Laterza, Bari-Roma

 

Marder M. e Tondeur A. (2021), Chernobyl herbarium. La vita dopo il disastro nucleare, Mimesis edizioni, Milano-Udine

 

Marin B. (2004), Gabbiano reale. Prose rare e inedite, La biblioteca del Piccolo, Euromeeting italiana/Mediasat

 

Quaini M. (2005), L’ombra del paesaggio. L’orizzonte di un’utopia conviviale, Diabasis, Reggio Emilia

 

Quaini M. (2005), “Ri/tracciare le geografie dei confini”, in: Confini: costruzioni, attraversamenti, rappresentazioni, Soveria Mannelli (Catanzaro), Rubbettino

 

Rigoni Stern M. (1980), Uomini, boschi e api, Einaudi, Torino

 

Strazzabosco S. (a cura di, 2020), Oikos. Poeti per il futuro (editio maior), Mimesis edizioni, Milano-Udine

 

Suwa J. (2007), “The space of shima”, in: Shima: The International Journal of Research into Island Cultures, v1, n1, pp. 6-14

 

Zorzi E. (1967), Osterie veneziane, Filippi editore, Venezia

 

* Chiara Spadaro è dottoranda in Studi storici, geografici e antropologici (Università di Padova, Università Ca’ Foscari Venezia e Università di Verona)

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OIKOS

L’uomo e la natura tra Omero e il futuro prossimo

Vicenza 8 Aprile 2022

Teatro Olimpico Vicenza

Il profondo della cultura occidentale è tatuato da un’orchestra liquida dentro cui nascono dinamiche che, nel corso dei secoli, si innestano e si intrecciano le une con le altre, in una tensione radicale, con varianti ma senza successivi stravolgimenti. Quel profondo dimora nell’azzurrità amniotica sonora del Mediterraneo. Allora navigato da piccole, medie, imbarcazioni di legno, nella cui concavità eroi, grappoli di persone prendevano la via dell’acqua per conquistare, salvarsi, ricrearsi o risignificarsi nell’andare e nel proprio ritorno a casa. Creature concrete, reali e, al tempo stesso, sorte dal simbolico, cantate nella loro drammatica maestà vitale o mortale, naviganti o incuneate in postazioni di sentinella divengono la cruna significativa esperienziale: il passaggio obbligato per chi vuole o deve attraversare la soglia di sé. 

Nei miei viaggi in Europa, non c’è stato luogo in cui non abbia sentito sul mio corpo l’eco tattile di questa ancestrale, sinfonica, voce. Persino nei silenzi del grande nord o tra le sabbie desertiche dell’Africa settentrionale. E’ l’orchestra dentro cui la melodia cromatica solare ricama le dissonanze percussive delle lance, degli spacchi di carne tra i latrati delle prefiche, in assolo di silenzio mortifero, tramato dal battito cardiaco delle vedove: il sangue quando si versa inutilmente, banalmente, direbbe Arendt, ha una sonorità indelebile e inquinante.   

Da poeta, piccola, animale femmina, sento l’Odissea come il poema primario che canta la radice. Da decenni la sto portando all’orecchio come la grande conchiglia madre. Sono i remi guidati da Ulisse che affondano le acque con ritmo, creando una scrittura azzurra negli azzurri, o è l’asse cosmico del corpo di Penelope che mantiene con la sua presenza, malgrado tutto e malgrado tutti, la vitalità della geografia dell’esistente?

Mi correggo. Ulisse non scrive azzurro, scrive sangue e lo lascia dietro di sé, nella sua visibilità di vincitore, lucido, rapido, scaltro, impermeabile, nel suo equilibrismo funambolico sostenuto dagli dei. Ulisse è in grado di sfondare la valvola aortica di chi incontra, popolo o donna. 

Siamo in grado noi occidentali, che per secoli abbiamo esaltato e esaltiamo la tèchne, la velocità risolutiva, il fascino narrante, l’immutabilità estetica, l’esplorazione che afferra e si appropria, siamo noi in grado di incontrare il volto profondo di Penelope? E con lei il ventaglio corale di un femminile che tesse, cura, si difende mantenendo la propria identità, accogliendo, scostandosi dalla lancia e dal pugnale? 

Permettetemi di nominare degli occhielli di riflessione dentro cui respira a mantice la sacralità della creazione nella relazione. Ogni creazione è connessa all’origine, così come ogni distruzione, ogni guerra la devitalizza. In ognuno di questi occhielli l’esistenza singola si innesta nel plurale che è compresenza, nell’accezione capitiniana. 

 

Il primo occhiello: 

  • Il primo, tuonante, fulmine rivoluzionario nell’Odissea accade nel libro I: Penelope scende la scala, quella spina dorsale che coniuga i due piani della casa, l’intimo alto, segreto, nascosto, rigenerativo, e giù  con lo spazio basso aggredito, assediato, violentato dai proci. La regina bellissima nella sua dolente resistenza scende un gradino dopo l’altro, affiancata da due ancelle, si ferma e improvvisamente, inaspettatamente,  interrompe Femio.  Non è quello il canto da cantare.  Non deve cantare la morte, il lutto, la separazione irreparabile, la rassegnazione, la definitività, ma ciò che è vita e il movimento dei numi. Creazione nella relazione, dunque.

 

Un altro occhiello:

  • Lì, dentro il telaio, nella prassi della tessitura, esiste un esercizio che è proprio della creazione nella relazione:  è la cancellazione. Lo sanno bene le tessitrici o le maglieriste che lavorano il filo. Non tagliano, non recidono, sciolgono la sua lunghezza e recuperano il corpo di quella fibra e la usano in altro modo, anche annodandolo. E’ questa anche la prassi del pensiero, della scrittura, dell’arte. Fare e disfare. L’atto del disfare non ha la violenza della distruzione, ma prepara la ri creazione. Nel vocabolario artigianale della tessitura, la cancellazione non ha nulla a che vedere con la dimenticanza, piuttosto ha un significato di tenuta e di divenire. Penelope stessa è la tela.

 

Un altro occhiello:

  • La pazienza è creativa. La pazienza di Penelope è azione, è mantenimento di un’eredità sacra a lei consegnata, in una solitudine scarnificata e assediata, accompagnata soltanto dalla sorellanza delle sue dodici ancelle. Tra l’altro, impiccate da Ulisse e tradite dalla sua nutrice.

 

Un altro occhiello:

  • Penso alla creazione trasformante di Circe, rivelatrice della vera natura dei suoi ospiti usurpatori, e penso soprattutto al dono d’amore che lei innamorata porge a Ulisse: gli insegna il nodo. Il nodo come simbolo e fare concreto di ogni giunzione materica e esistenziale.

 

Un altro occhiello:

  • Nell’amore di Calipso per Ulisse il dono è il tempo. Il tempo si apre come i grani liberati dalla dimora ciclica della clessidra. Calipso porge a Ulisse un tempo infinito senza plesso, interconnesso con il tu e il tutto. 

 

Un altro occhiello:

  • Cito la compassione comprensiva della madre di Ulisse, morta di crepacuore, che negli inferi risponde a ogni domanda scagliata dal figlio, ma lo tiene alla giusta luce, ricordandogli la qualità di chi lo sta salvando a Itaca: Penelope, appunto. Così come amore è:  non confuso, non adulatorio, non adorante, mai morto

 

Un altro occhiello:

  • L’apertura calda di Nausica, il suo virgineo accoglimento, e l’ospitalità inclusiva generosamente elargita dalla regina Arete insegnano che i doni e l‘ascolto sono consegne di affidamento gratuito. Una sacralità che si passa di mano come un testimone in nome dell’umanità anche contro il dettato degli dei. Sono gesti politici prima che spirituali. 

 

Questi sono solo alcuni occhielli tra gli infiniti possibili,    mentre tra le onde azzurrissime,  chiazze violacee di sangue e trasparenze,  emerge il biancore della spuma e delle ossa. Quell’ azzurro sonoro si infrange sulle coste, sugli scogli, sulle carene, tra le zampe delle sirene sorelle.

Nel Mediterraneo omerico Penelope e Ulisse, i due fulcri culturali,  concertano e sconcertano tra armonia e guerra, lei in un amoroso viaggio verticale nel sé, lui nel viaggio orizzontale oltre ogni sé. Oggi assistiamo alla clonazione di Ulisse, riverberato sulla pelle delle acque e della terra. 

I pazienti semi di cura e di amore sono strappati al non c’è tempo.

 

Io li canto così:

 

mediterraneo

 

fin dalle elementari ci insegnano tre verbi: 

vincere perdere ubbidire alle necessità della patria 

al dio della verità    tradotto dai pochissimi per tutti 

 

nessuna riga nel libro di storia 

per la politica artistica della creazione 

di chi salva la vita degli altri 

di chi denuncia e fa parlare gli zitti spaccando la rassegnazione mancano i nomi i fatti le ragioni dei disertori 

la visione delle vedove dei soldati 

di chi porta la resistenza nel   con   il proprio corpo 

 

ma c’è chi fa la conta dei salvati 

chi da femmina canta a rovescio   io 

con antigone cassandra medea penelope 

leggendo il buio tremendo di tiresia 

fino alla gola plurale delle sirene 

chi di noi rompe le fila legandosi 

 

alla montagna con marialai 

mentre aldocapitini e annabravo allungano il nastro 

 

agli ultimi anche a quelli sull’acqua

 

da il canto dell’altalena, Al3vie e Piedimosca, 2021

       

 

Quante volte mia sorella ha fatto e fa

lo stesso gesto

in un cerimoniale intimo

 

dolore.

Segna con l’indice le proprie labbra congiunte

pregando che il maschio per una volta stia zitto

si commuova: diventi lo straniero scalzo che entra in un paese

di cui non conoscerà mai lingua grammatica vocabolario.

Che il suo cervello si apra. Esca da sé stesso.

Non ripeta il suo nome la sua declinazione all’infinito

l’essere pieno parola re.

Stia zitto. Tocchi con il dito

La lingua

le papille il rosso

 

nell’ugola l’ultimo profondo velo

palatino. Il soffio.

 

Che un fulmine lo sciocchi

lo renda analfabeta liquido. Che finalmente

ricominci dal buio

 

delle orecchie. Lo stare in fondo

figlio non padre figlio in silenzio

alla corte non di Alcinoo alla corte

del creato.   

Anna Maria Farabbi

 

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