DARIA MENICANTI 2 di Milena Nicolini

 

  1. Le tematiche

 

Cc sta per Città come; Un sta per Un nero d’ombra; Pp sta per Poesie per un passante; Aa sta per Altri amici; Fe sta per Ferragosto; Uq sta per Ultimo quarto.  

 

Si allarga in certe poesie di Daria un sentire la vita come coessenza dei tutti, ciclica nell’alternarsi fondamentale di nascita e morte, ma senza connotazioni tragiche, in una apertura che è adesione appassionata, esperienza e sintonia conoscitiva, dentro e attraverso i ritmi naturali:  in certi momenti sembra  avvicinarsi  alla “cosa” materica e divina e infernale e in-umana e comprensiva  dei tutti  di Clarice Lispector in  ‘La passione secondo G.H.’:

“sè riassume dentro sè. / E non linee di fuga / non assenze (…) / ma estraneo ad ogni mutazione / onda per onda si ripete / identico eternamente” (Cc, Il lago); “C’è un’aria di abbandono e di rivalsa / intorno alle paludi: se ne vive  / ciascuno della vita e della morte / dell’altro (…) / E qui ritrovo quel mio divenire / infinito con tutta l’altra terra / (…) E subito di tutto m’innamoro / (…) Mi sento (…) buia e calda / come una linfa di pianta nel sole ,/ come una cosa amata.” ( Pp, Se);  ‘‘Nati in mezzo alle cose / noi viviamo affettuosi con esse / e quelle –le loro anime scure –  / ci danno qualche pace / e prima o poi /ci fanno da specchio’’ (Uq, Le cose) ; ‘‘in quanto al tempo passato in quanto a questo / che chiamiamo presente ed è già un altro / tutto è contemporaneamente in un confuso / continuo anello di mortalità. / Così da sotto una crosta di freddo / qualcosa di felice sporge in alto / con un guscio di seme sulla cima’’(Fe, Preludi);  ‘‘ Così di gente in gente sollecitano i sogni / i pensieri bussando fuggiaschi / invadenti tornando. // E la lunga selvaggia innocenza di ranuncoli bianchi tesi in danze / (…) / è il continuo del liscio denso muschio / (…) /e se la pioggia brulica leggera / (…) / il fiume le corrisponde felice’’(Uq, Il continuo).  C’è una capacità di amare che la intreccia con tutto l’esistente; non è solo un amare attivo, frontalmente io-tu, ma anche un amare ‘passivo’ nel senso che Daria si lascia compenetrare dall’altro-da-sé e  gli va dentro, diventa l’altro: “Da gran tempo quasi un’eternità / sta dentro me tal cosa notturna / con due larghi freschi occhi di civetta / ad aspettare ciascun novilunio.”, (Pp, Teschio civetta e primo quarto). 

Tutto quanto l’altro, anche quello più inquietante, anche l’altro-di-sé, che può comportare, come per Clarice Lispector, il contatto con l’assolutamente impuro, con l’ ‘infernale’, con l’ ‘inumano’: “Un assassinio: ecco la cosa. Io so / di questa cosa. So che posso uccidere, / che dovrò dispensare la morte. / (…) /E farne uso devo, un uso / spiccio, fruttifero, intenso” (Pp, So che); non può non venire in mente qui il dubbio di Antonia Pozzi, riportato nella prima parte a proposito della lezione di Banfi. Così la sgomenta, ma la pervade il senso di ineluttabile creazione e distruzione nella teoria della specie: “l’invasione pesante senza voce / marcia sopra i miei passi / stringendomi in urti contigui / e tutto il corpo è un polso che mi batte / un’unica gola strizzata. / Cadenzando sicura l’infinita / schiera (…) / mi raggiunge e mi inghiotte nel suo mezzo / chiusa: una cosa soltanto con sé. / E di quelli uno il piede ha già cacciato / nel mio piede / e l’orma sopra l’orma. / Il suo corto respiro / -quel suo finalmente appannarsi / l’alto sonno che a poco a poco chiude –  / sono anche mio respiro, mio sonno”(Fe, L’invasione) e “il sole / mi bruca, tenero agnello, le spalle / nude. Mi dico: tu morrai comunque. / E sarà e risarà la stessa storia / eternamente.”( Un, Esistenziale).

In genere, però, la morte non ha il carattere della disperazione terribile e angosciante: “il sole / mi bruca”. La morte è sentita quasi ancestralmente,  naturale e metamorfica, quasi una delle manifestazioni della Grande Madre, “con due larghi freschi occhi di civetta”, dove si rovescia l’angoscia eliotiana dell’‘aprile crudele’: “Ma se morire è questo / (…) quell’eterno divenire / sempre altro sempre altro (…) / insieme con tutta la terra, / allora sì che è bello essere morti / fatti pioggia primaverile o canto / (…) del mese di aprile, il più crudele / di tutti i mesi” (Pp, Per Aldo). Anche la morte dell’amato o degli amici può essere “gentile”, se rifiutata come un “logorio sfinito / di cenere e penombre”(Pp, Non dire), magari  trasformata in un difficile ma vitale rapporto coi morti, con le loro  “cose assurde e remote (…) / buone per un’altra gente / un diverso pianeta” (Pp, Non si sa), colta dentro il grande ciclo  dell’esistere: “E risentono i miei morti / crescere ancora una volta di sé / teneramente stelle e bucaneve” (Cc,  Val Grande d’Ossola); quando allora diventa quasi “interdetta” dall’“onda per onda”, nell’eterno procedere corale dei tutti-insieme, nettamente contrapposta a “questo mondo che muore” esclusivamente umano, altro dal mondo in cui si intrecciano alla pari le vicende di  cicale, uomini, grilli, cani, alberi, forsizie, pigiami, “effimeri e immortali” (Cc, Cantilena per Porta Ticinese), dove anche l’essere e avere e la logica sono diversi: “Ho un bosco. Un grande bosco che non ho / (…) / (…) Ai piedi ho un mare bianco / di giochi e di criniere, in alto il cielo / che hanno tutti con lune e con soli” (Fe, Fancy)  

Esserlo insieme, la parte umana e la parte inumana di sé e del mondo: è quasi una forma di eternità, anzi no, di assenza del tempo corruttore, nel tutto che c’è qui, hic et nunc, non separato, sempre in presenza comunque, non per forza bello o pacificante o consolatorio. Una compenetrazione che non è un indifferenziato darsi, non è una cessione dell’io, non è una rinuncia a criticamente capire, e, se necessario, a negare, a scegliere di cambiare, di muoversi, lottare.   C’è in Daria anche l’estesa, ma critica e attenta, adesione ai tutti di Emily Dickinson. 

Daria, come Emily infatti, si muove “calda”, con “sano respiro”, si ritrova con semplicità parte di ciò che le sta intorno, si immedesima con l’immediatezza  immanente e animistica di tempi ancestrali: è “ammalata di vita”, ma sa “da oggi o da sempre- / che qualcosa di atroce e di vitale / nidifica dentro di me.”(Pp, Autunno); così: “Sento nel mio corpo / (…) un soffio di vertigini, / un dolce morso di mortalità. / Piango e rido gridando: io vivo, io vivo!” (Un,  L’angelo acerbo); e allora: “Vivo tranquillamente alla giornata / derivando da un’onda all’altra” (Un,  Vivo tranquilla), e ancora:  “Indisturbati / si vive di tempo, / dell’essere sasso col sasso.” (Cc, L’Antenata); perché “Vivere è non sapere le ragioni. / (…) /Vivere è tutti i giorni cominciare.” (Pp, Vivere è); la vita, infatti, “Ci sfiora ronzando / e passa a un altro.”(Pp, Il turno). E’ un modo quasi ‘animale’ di sentire la vita: nel significato più antico della parola, per ciò che ha senso, movimento, è organismo vivente. Ma anche nel significato letterale del termine, essendo continua nei  versi di Daria una sintonia eccezionale con gli animali: si veda la raccolta Altri amici, del tutto riservata ad essi. Gli animali, infatti, in particolare, sono  partecipati da Daria come in una simbiosi, che la addentra nella “timida striscia di vita” di “Osvaldo, cane bassotto” (Cc, Osvaldo), nella risata di  “Andrea cavallo” (Cc, Andrea cavallo), nell’ “ebbrezza” del ragno che “aspira con avido fiuto”, i “vapori danzanti” dei balsami da bagno (Fe, Ragno), al punto da trasmigrare lei stessa in un animale: lei è “il mite grillo”, il “cane lupino che abbaia alla strada”, la “gatta sottile ignara di padroni” (Cc, Camaleonte); lei che: “A volte sogno d’essere cavallo / (…) / (…) se sento odor di fieno, se / mi presentano un piatto di carote / sanguigne e vitaminiche, / equina sorrido e nitrisco” (Aa, essere cavallo); e sempre lei, se le “esce la voce / è uno zirlo fischiante e buffo come / di uccello” (Un,  Esclusivista). Ma è un “bel calabrone” anche l’amante desiderato (Pp, Fiore); è un gatto bianco “Sebastiano Trovato dentista” (Pp, Dentista). Loro, peraltro,  gli animali, erediteranno la terra: “Regna tranquilla o trasalisce appena / la pace degli animali su quella / che chiamavamo il nostro pianeta. / (…) / la vita la seguiteranno ancora / insetti di perfetto cervello / lucidi e neri pullulanti ovunque / beati di rovine” (Uq, Futuri). E come un assioma, fulmineo e di scorcio, in quella concisione con cui Daria riesce a bloccare il fulcro di un attimo di vita, di un carattere,  di un atteggiamento, dice: “Gli uomini, tu sai, / li puoi sostituire. / Un cane / mai.” (Un, Fedele al primo). E dice tutto.

Si è già detto che, però, non tutto deve essere accettato; naturalmente, eticamente, è  possibile e ineliminabile il distacco critico, il rifiuto del male, del negativo, soprattutto quando si avventa sui più fragili: “Galleggia verboso nei bar /   intronato lotta coi flipper / (…) / Loro aspettano certi / di averlo prima o poi e comunque” (Fe, Loro), “Quel tuo Dio puritano che salva / poche anime di suo / te lo regalo tutto quanto. Io voglio / Dio in un gorgo di stelle / febbricitanti, uno che punga e strappi / e si faccia inseguire” (Pp, Dio); “Non ci sono cavalli. Che tempi. / Non ci sono più cavalli.” (Fe, Non ci son più cavalli), “Non potevo giacermi più con lui / fargli da harem. / Un giorno –via! – veloce / me lo amputai con un coltello fino. / E fu un bene”(Pp, Sultano). 

Certamente la sua formazione intellettuale  non può non avere influito sulla sua concezione esistenziale;  comunque Daria fa della poesia, dei suoi modi specifici, uno specialissimo, del tutto originale, strumento di indagine, ricerca, riflessione. Si sente  che il suo consapevole stare nel mondo non viene da un percorso  prevalentemente teoretico, né solo da maniere assorbite dalla pratica della cultura. Molti sono, infatti, gli elementi di distanza, di originalità rispetto alle mode, alle correnti, al pensiero, ai gusti del suo tempo culturale.  

Daria con la poesia percorre, ad esempio, i luoghi comuni e chiassosi della quotidianità metropolitana, piuttosto che gli spazi alti e afasici dell’ermetismo, come quando riscopre “le prime mattine di luce”, nell’odore di caffè, “pane di forno, / terra fresca, benzina. / Pinìn serve (…) / il primo pieno di normale” (Cc, Febbraio). Racconta gli incontri meno lirici e meno ‘poetici’  che si possano fare, come l’uomo grasso dalle “corte cosce spalancate / gli occhi sciapi sporgenti” che “eppure anche costui piacque e per qualche- / duna fu il primo, ebbe la rosa” (Pp, Uomo); o come l’uomo incontrato per caso “che aveva / solo se stesso”, che lei porta “di sopra” per non farlo andare via, di cui accetta il denaro senza dire niente, senza spiegare l’equivoco: “fu bello / anche se poi non sono / la gran tecnica in cose d’amore, / (…) / Ma gli sembrai una donna / vera / e, in più, silenziosa. Questa lode / mi ebbi. /Neppure richiesta” (Pp, Anche questo). Scopre e canta gli oggetti più semplici e per niente simbolici, come il “pigiama azzurro” che lei dona al suo “corpo famelico di lunghe carezze” (Un,  Pigiama), come il lenzuolo che si tira oltre i capelli “tiepido vivo” (Un, Le cose che), come “Il caldo, il comodo / vestito che per me è la vecchia casa!” (Un, Un vestito). Lo fa con la sapienza di un’adesione  che è prima di tutto d’istinto, fisica del modo di stare del suo corpo nel mondo, e che poi, sì, certamente viene filtrata, pensata dalla sua cultura, ma senza tradirne mai la spontaneità: “Non sola (…) / anzi è facile farmi una cadenza / a tutte le cose qua attorno, / alberi, case (…) Le patisco a volte, / ma più spesso ne sono beata. / Siedo ed ascolto, tanti e così lievi / messaggi di cose (…) / E vivo / (…) quel loro ritmo d’arnia.” (Cc,  Lettera), “E subito di tutto m’innamoro / tanto ogni cosa mi risembra bella / nella sua fuga, ogni spiro, ogni insetto.”(Pp, Se). 

Non esibita, ma naturale, è la sua aderenza al soffrire degli esistenti, siano essi persone come la “scolara (…) che arriva sempre tardi” perchè “si fa un netturbino ogni mattina” per comperarsi “mutandine di pizzi sigarette / (…) ma nei bar / chiede una cioccolata, unico cielo / d’infanzia” (Pp, Terza media); o cose come il fulmine “fuggiasco” (Pp, Guardie e ladri); o animali come lo scarafaggio Giorgio: “Ma una volta gli volli bene: Giorgio / se ne veniva da dentro un armadio / col boccone di carne per i figli” (Pp, Giorgio scarafaggio). 

Daria non afferma certezze categoriche; anzi, la sua cifra sembra essere il non-voler-sapere, se ‘sapere’ significa la chiusura schematica del complesso, del molteplice, del mobile in formule amputanti: “Vivere è non sapere le ragioni.”  (Pp, Vivere è); “E torci fili e trami cose vere / che non sono mai state / che non sono” (Pp, Strega); “Io non so chi, non so / il nome. / Ma ti aspetto.” (Pp, Per un passante); “Gusto i miei primi silenzi con te: / mai ho voglia di parlarti, di dire / una buona volta chi sono.”(Pp, Mi piacciono); “In sé e per sé uomini non ci sono / ma soltanto le loro aspettative / ci sono, nutrite di amorose / contese o di perdoni / e soprattutto del fertile dubbio / volto sempre alle maturanti ascese/alle improvvise invenzioni” (Uq, L’attesa è la sola  passione). D’altra parte, la certezza, La Verità Definitiva, nessuno la vorrebbe, “libellula tremante / di freddo e solitudine – (…)/ (…) Ma nessuno/ che si faccia vedere con lei/ così straniera così nuda priva / di sorrisi e perdoni” (Uq, La verità). Daria preferisce nominare per trasgressione, è un suo carattere tipico il piacere di dire qualcosa che è ‘sconveniente’ almeno per qualcuno: “La vita è un dito / in fondo al mio bicchiere. / Lo so. Non ti piace / che lo dica.”(Pp, Epigramma2). Può sembrare solo un atteggiamento anticonformistico, ma c’è molto di più: Daria afferma una sua irrimediabile libertà (e, anche, verità), che non si esprime con slogan e affermazioni teoriche (di cui il suo tempo era colmo), ma sottilmente con rovesciamenti di comportamenti canonici, di ipocrisie perbenistiche, di convenzioni moralistiche che smascherano sia menzogne societarie che repressioni di ineludibili bisogni, repressioni che comportano tanto dell’infelicità umana. “Finge qualcosa e ruota pigramente / il volante guidando sotto  folti / alberi gialli, la pioggia arrogante. / Con l’altra mano dura e aperta preme / la mia gamba qua in alto. / –Ça recommence,  mi dico. E deliziosa-/mente mi stiro. (Fe, Ça recommence ); “Da tempo ho smesso di rubare amori / di prendere per me le cose belle / di bere scaltra un sorso / dal bicchiere di un’altra. / (…) / meglio avere rimpianti che rimorsi” (Uq, Gnomica); “ ma da quando / mi hai imposto mano sento / salirmi dentro lungo il tronco vene / mansuete di zucchero e già indosso / i fiori e i frutti di un’altra” (Uq, Innestata). Se più graffianti possono sembrare le numerose provocazioni che accampano sesso e relazioni amorose, pure Daria sa essere terribile in altro genere di morso: “Lei ha tre anni, capelli piumosi: / da oggi è in un’oasi di adulti / vezzeggiata attillata allisciata. / Queste cose vischiose lei le avrà/ per anni / e il male sarà fatto.” (Fe, Adozione).La sua poesia si colloca in zone rimosse dal ‘buon senso comune’, non a caso le paragona alle “cicche” che si raccattano lungo il marciapiede (Pp, Il ciccaiolo). Daria sa però anche come la poesia sia capace di magia: “Dico: – il Principe dei Gigli – / e mi riallieto” (Pp, Il Principe dei Gigli). E sa come non sia mai solo espressione del sé: “ lì appunto / tu scopri il tuo essere in tanti / il tuo essere in troppi e con amore / amputi le tue lunghe ambiguità, / amputi e affili e già diventi un nuovo / risuonare di voci e di colori / (…) / Sempre questo ti avviene quando scrivi: / ti intriga un’oppressione lievitando / multipla: qualche cosa / urge di separarsi da te / e già è altrove e lontano, già con altro – / altro da te – convive e si accompagna” (Uq, Scrivere romanzi); “Non sempre sono stata/ (…) / così ciarliera di me / a riottosi ascoltatori. / Ma -delle tante una- stasera / voglio che tu non mi cerchi / per nome (…)/ (…) / Sono qui per ognuno / anonima, in fuga.” (CC, Via Pré).   E’ poesia capace anche di fronteggiare dio: “e pregare, / come sogliono gli atei pregare / per te…/ il dio aggredendo con un patteggiare / furioso, un promettere cieco, /e, in cambio, / la disperata esigenza.” (Un,  Solo questo); “Quanto di te ho pietà, chè non potesti, / povero dio, morire.” (Cc, Pasqua).

Ma l’eversione di Daria è soprattutto nel suo sguardo diverso, nel suo essere altrimenti da un’attesa scontata. Soprattutto ai suoi tempi. E’ soprattutto, quindi, nella godibile potente ironia, quasi costante, sotto il cui filtro fa passare quasi tutto,  se stessa in primis. L’ironia le permette anche quella necessaria distanza di sguardo – mai fredda, però, mai priva di passione –  che crea l’ombreggiatura volumetrica della sua poesia, fino a costruire spesso piccoli scorci di teatro in atto: “… e lui mi aspetta e accompagna nei luoghi / deliziato. La sua corte remota / generica e all’antica / teneramente comica è sul punto / sempre di lusingarmi. / (…) ‘Quando sei solo/Dio ti manda un cane’ ”(Aa, Caninamente); “Poi mi accorsi / orribilmente che era tale quale / il mio parrucchiere: pancetta / retrattile, l’altezza / un metro e sessantotto / la voce da tenore, / golare, allusiva / a un sè grande e perfetto.” (Pp, Sultano); “Viene lì una che pare un idrante. / – Sono, dice, Rosanna Battistoni – / e via che si mette a leggermi suoi versi. / Dio mio / Dio mio / quanto mai devo avere peccato / contro il Tuo volto santo” (Uq, Poetessa); “Ho incontrato una mia contemporanea, / una barchetta snella / navigata. / – Come va- chiedo. / Mi risponde: / -Il solito: / Con me dormono / mangiano / poi filano.” (Un, EpigrammaIV); “Ex-grassa / con dei pallidi bargigli / pendenti dalla gola dal mento” (Un, La consigliera); “E’ quella tale / che parla con i seni” (Un, Epigramma IX); “A vele tese, a vele bianche avanza / e turchine, col busto accordellato / stretto / un rollar grande di fianchi” (Cc,  Una goletta); “Primo errore vivere come se. / (…) L’altro più grande errore / è credere che mai ci imbatteremo / in ladri o assassini / o in uno come lui, giuda di miele”(Fe, I due errori).

L’ironia, Daria la usò anche per la propria morte, forse per cancellarne l’ansia o forse per rompere la congiura del silenzio: “Noi non parliamo / noi non parliamo mai/di quello” (Uq, Noi non ne parliamo). 

Così in  ScherzoI, Onoranze a Fleming  (Cc): “E un giorno, quando sarò morta, spero / che i colleghi più grandi (assai!) di me, / Katherine Mansfield /  Percy Bysshe Shelley / Anton Cecov / John Keats / e -qui dei nostri- Giacomo Leopardi, / in via del tutto eccezionale un posto / ospitali mi serbino nel loro / PARADISO PER TISICI. / -Signori!-e inchinerò / la mia larva sguernita / -Eccomi qui . /Io chiudo il ciclo dei consunti. / Dalla Terra scomparve il Tibicì. / Nome mezzo da uccello e da sternuto / lo cancellava Fleming / con una presina di muffa. /Signori, / nascemmo noi troppo presto?- / E tu -voglio scommetterci- il più caro / dei giacomini, / con quel tuo sorriso / -Come tutti- dirai.”.

 

Con varianti questo saggio fu edito su Pagine  anno XII n.67, maggio-agosto 2012, col solo titolo “Daria Menicanti”; fu poi ripreso da  “Di tutto m’innamoro”,  in Cartesensibili del 15-11- 2011.

 

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