DARIA MENICANTI 1 di Milena Nicolini

Milena Nicolini

Propongo qui un lavoro corale su Daria Menicanti, grande poeta del Novecento quasi del tutto dimenticata, forse perché non abbastanza tragica la sua vita o forse perché si tenne sempre fuori dai gruppi e movimenti ‘importanti’ a lei coevi. Originale, political non correct, anticonformista, di grande forza. Tanto si deve ancora indagare su di lei, della formazione, delle amicizie, del lavoro intellettuale e soprattutto della sua poesia. Propongo una rubrica non fissa, aperta a contributi di vario genere (da saggi complessi ad analisi di singole poesie a paralleli con altri poeti e poete, ecc), che potremmo semplicemente chiamare: Daria Menicanti. Personalmente presenterò quanto ho già di lei scritto e quanto ancora mi verrà da scrivere sui suoi testi. In questo mio primo stralcio si possono trovare le indicazioni bibliografiche essenziali. 

 

Presentazione di Daria Menicanti

 

1.La vita

Nonostante nel 2013 sia uscito, a cura di Brigida Bonghi, Fabio Minazzi, Silvio Raffo, per i tipi di Mimesis, Centro Internazionale Insubrico, Il concerto del grillo. L’opera poetica completa con tutte le poesie inedite, di Daria Menicanti, la sua figura intellettuale, la sua poesia restano non solo ai margini degli interessi, degli studi contemporanei, ma si potrebbe parlare addirittura di una rimozione dalla memoria culturale. Non stiamo parlando di una poeta minore, di una personalità scarsamente originale, di una vicenda esistenziale banalmente qualunque. Mi assumo, con non pochi altri oggi – ma soprattutto non poche altre – la responsabilità di un’affermazione categorica: Daria, la Daria – come la chiamano ancora nei loro saggi gli amici – è di sicuro una delle voci poetiche di donne più importanti, originali e significative del secolo scorso. La sua formazione è limitrofa o proprio al centro di  movimenti culturali di rinnovamento, sperimentazione, ricerca, del Novecento, che, a partire dagli anni Trenta, a Firenze, a Milano, a Torino – ma non solo -, riportano l’Italia in Europa e nel Mondo. Sono i tempi del movimento poetico ermetico, dei prodromi del simbolismo montaliano, della traduzione della narrativa e della poesia contemporanee americane, e, soprattutto,  del razionalismo critico di Banfi. E intorno a lui l’irraggiarsi del pensiero di Giovanni Maria Bertin, di Dino Formaggio, di Enzo Paci, di Remo Cantoni, di Giulio Preti, di Luciano Anceschi, per nominare solo alcuni di quell’ambito, senza dimenticare la poesia di Antonia Pozzi, di Vittorio Sereni e la presenza di altri intellettuali e poeti come Maria Corti, Giansiro Ferrata, Salvatore Quasimodo, Sergio Solmi. Dice Fabio Minazzi che quei giovani impararono da Banfi ad “integrare criticamente i differenti saperi, relativi alle molteplici e contrastanti dimensioni della realtà”, dalla cui “interrelazione nasceva quel ‘più che vita’ ” di Banfi che significava “l’esaltarsi stesso della vita che si farà poesia, filosofia, arte, scienza e letteratura”. Attorno a Banfi si forma 

“la composita e anomala scuola milanese (…) cui si affiancavano e intrecciavano, poi, le molteplici situazioni culturali   allora vissute, le frequentazioni di alcuni caffè milanesi (le “Tre Marie”, il “Savini”, etc.), i tragici suicidi (di Manzi e della Pozzi) (…). Erano questi, infatti, i “terribili anni Trenta”, di cui ha parlato Dino Formaggio (…) in tutta la loro ricchezza, ma anche in tutta la loro angoscia (…): 

“la loro crescente violenza in Europa venivamo noi allora considerando ad occhi bene aperti, ma in uno stato di inquietudine crescente. Il graduale approssimarsi della seconda guerra mondiale filtrava ogni giorno di più sotto la nostra pelle e condizionava gli incontri della vita universitaria e fuori, la vita dei corpi e degli atteggiamenti culturali e sociali. Spingeva i gruppi di un diverso sentire esistenziale e ideologico a serrarsi sempre più stretti o a dividersi sempre più decisamente. (…) Diverso era il rifrangersi in ciascuno di noi (…). Altro per me, che venivo dalle officine meccaniche del proletariato milanese, e altro per chi veniva da ambienti più ovattati e da grembi familiari di ricchezza e di cultura. (…)  noi non dormivamo e discutevamo tutto, con accanimento, fino all’esasperazione (…) sentivamo il profilarsi di ineludibili urgenze di scelte decisive di destino (…)” 

Non a caso la Pozzi nei suoi Diari (…) ha avuto modo di annotare: 

“ (…) una visione filosofica come quella di Banfi applicata alla vita di un giovane porta a spaventose conseguenze pratiche. Comprendere tutto, giustificare tutto. L’assassino, l’idiota, il santo. Ma allora anche noi possiamo farci assassini, pur di non rifiutare nessuna esperienza?”

(…) Nella riflessione della Pozzi sembra quasi che l’“ethos della comprensione” banfiana (…) rivelasse tutta la sua incapacità teoretica di fornire una risposta positiva alla stessa crisi storica e filosofica(…). In ogni caso (…) ci aiuta(no) a meglio comprendere come presso i migliori allievi di Banfi, la sua innovativa lezione filosofica (…) si trasformasse(ro) anche in carne e sangue, in energia costruttiva, in disciplina interiore di riflessione e di lavoro, (…)in “più che vita”, secondo le differenti, contrastanti, ma sempre pulsanti, energie delle singole personalità.” 

Interessante la precisazione su questa “Milano Anni Trenta” in quanto dice Matteo Mario Vecchio: 

“accanto ai laghi e ai boschi e alle mitiche frontiere (con i loro presagi di libertà, di innovazione, di urto con una realtà vera), è spazio condiviso di una diffusa poetica tutta lombarda, emancipata dai virtuosismi botticelliani dell’Ermetismo fiorentino e tesa, in un retroterra simbolico ed effettivo allo stesso tempo, all’auscultazione delle cose, del reale. E, tuttavia  la Milano di Daria Menicanti non è più la Milano di Antonia Pozzi e del primo Sereni, slitta sensibilmente da malinconica e limbale città di sottopassaggi e ciminiere e di scambi ferroviari, specchio labile di una condivisa vicenda di precarietà generazionale e storica, a scintillante metropoli (mittel)europea; è piuttosto la città della “ragazza Carla” di Elio Pagliarani, la metropoli spronata in una modernità (spersonalizzante) e in un benessere (alienante) ormai di massa; non è più la città del “volo dei ponti”, del vesperale “tumulto dei binari”, la città post-bellica di Miracolo a Milano di Vittorio De Sica, ma la città essenziale ed estranea de La notte di Michelangelo Antonioni (…) del grattacielo Pirelli e della Torre Velasca: dell’incomunicabile frattura interna, della contestazione studentesca che travolge nel suo tourbillon anche gli amici e i sodali della Menicanti, Giulio Preti, Mario dal Pra, Enzo Paci, Remo Cantoni.”  

 

Daria Menicanti era nata, dopo tre sorelle e due fratelli, a Piacenza nel 1914, ‘per caso’. Il padre Gastone era di Livorno, irredentista, membro della massoneria, oppositore del fascismo, fino ad essere coinvolto nella ‘congiura Cappello’ contro il Duce; doveva  spostarsi spesso per il suo lavoro in banca, così l’infanzia di Daria conobbe vari cambi di residenza, per approdare infine a Milano. Tutti in famiglia avevano un soprannome ed il suo era Momi, il grillo. Daria bambina era molto timida, di scarsa salute, chiusa, era in contrasto col padre, molto legata invece alla madre e alla sorella Lidia. Faticava a fare amicizia e a costruire relazioni, in questo non favorita anche dalla mancata frequenza di elementari e medie, che superava con esami da privatista. Anche al liceo classico le mancarono buoni rapporti coi compagni; fu solo all’Università che si aprì al gruppo che si muoveva attorno a Banfi.     

Daria si laurea in estetica con Banfi nel 1937, con una tesi sul poeta John Keats.   Nello stesso anno, il 30 ottobre, sposa in Comune a Milano Giulio Preti, che diverrà un importante filosofo nel dopoguerra;  se il matrimonio, tra ‘sontuose baruffe’ (Sereni dixit), durerà fino al 1951, il rapporto tra loro si interromperà solo con la morte di Giulio nel 1972, continuando comunque nell’interiorità più intima di Daria fino alla fine della vita. Il matrimonio con Giulio, l’aveva annunciato alla famiglia quando la sera era passata per casa a prendere un po’ delle sue cose: “Stasera non vengo a casa perché mi sono sposata.”. Dopo Milano, lo aveva seguito a Crema e poi a Pavia, di cui Preti era originario, dedicandosi all’insegnamento. 

Dopo la separazione da Giulio, a Milano si era trasferita nella ‘mitica’ casa di via Vitruvio 9, non lussuosa, non grande, da lei molto amata. Ricorda le sensazioni del primo ingresso Fabio Minazzi: 

“Quell’appartamento era un mondo: caldo, accoglieva subito con un cordiale sapore di amicizia, mettendo l’ospite immediatamente a suo agio (…). Il legno della casa, sia quello del pavimento, sia quello delle porte, sia quello dell’arredo, sapeva d’antico, perché aveva assorbito continua, dagli uomini, una traccia (…)in cui si esprimeva il dominio incontrastato del tempo e l’anima oscura delle cose. (…) Esattamente al centro di gravità di questo mondo si muoveva, con una presenza apparentemente fioca e quasi evanescente la Daria, che su tutto levitava multipla, quale autentica e reale “vittoria dello spirito” (Lalla Romana). Con una grazia e una cordialità inaspettate”.    

Le sue piante, ricorda ancora Fabio Minazzi “erano sempre lussureggianti e dominavano, incontrastate, anche nella sua camera da letto (…) “le piante soffrono”. Perché 

“La Daria ha sempre considerato le varie e differenziate forme viventi –e anche non-viventi – presenti sulla terra come del tutto solidali  e intrecciate. (…) dietro questa sua apertura cosmica alla vita in ogni sua manifestazione, vi era (…) il preciso senso di attiva “sorellanza” con tutte le forme possibili dei viventi (…) come esseri connessi e sodali nella comune tragedia e avventura, certamente non facile, della nostra stessa esistenza. (…) noi uomini, animali razionali, ‘bipedi implumi dotati di un’anima’ ”

Insegnò sempre nella Scuola Media Inferiore (negli ultimi anni ricoprì l’incarico di Preside) e presso la ‘Arconati’ conobbe Lalla Romana con cui strinse una calda ed ininterrotta amicizia. 

Si dedicò alla traduzione dall’inglese e dal francese: Betty Smith, Silvia Plath, Jean Paul Sartre, Dylan Thomas, Paul Gèraldy, John Keats, tra gli altri. Collaborò, pur se saltuariamente a varie riviste, tra cui Paragone, Resine, Inventario. Vinse il Premio Carducci con Città come.

I suoi primi tre testi poetici uscirono presso Mondadori: il primo, Città come, del 1964, nella collana Il Tornasole, diretta da Niccolò Gallo e Vittorio Sereni; gli altri due, Un nero d’ombra, del 1969 e Poesie per un passante, del 1978, nella collana dello Specchio, sempre sotto la direzione di Sereni, con il quale Daria condivise una profonda amicizia ed un continuo confronto poetico. Commenta Fabio Minazzi:

“Se questa vicinanza amicale e di comune formazione banfiana è ben vera e innegabile, tuttavia occorre anche tener presente che la Daria sentiva Sereni, come poeta, abbastanza “distante”, in quanto “settentrionale” e, quindi, a suo avviso, troppo “austero”, autore, insomma, di una poesia “molto severa e raziocinante”, cui la Daria contrapponeva (…) la sua ben diversa natura, molto più ciarliera e comunicativa, di netta ascendenza toscana, “piuttosto eloquente, parlante”. Nuances, certamente, le quali, tuttavia, ci aiutano a meglio penetrare (…) i differenti (…) ‘epicicli’ (…) della scuola banfiana, nonché, anche la differente sensibilità delle sue varie voci”

Anche Ferragosto nel 1982 viene approvato da Sereni per Lo Specchio, ma dopo la sua morte improvvisa, la Mondadori le restituisce il testo, rifiutandone la pubblicazione con la motivazione che avrebbe pubblicato solo Premi Nobel o testi di “eccezionale modernità e valore”, programma peraltro poi variamente trasgredito. Per Daria fu una vera e propria ‘esecuzione’ che non riuscì mai a dimenticare, dice l’amica Lalla Romano. Ferragosto, con una nota introduttiva di Marco Marchi, fu poi pubblicato da Lunario nuovo, di Acireale, nel 1986, lo stesso anno in cui uscì Altri amici, con Forum/Quinta generazione, di Forlì. La vicenda con Mondadori pesò anche sulla pubblicazione di Ultimo quarto, che, con l’introduzione di Lalla Romano, fu accolto dal prestigioso editore Scheiwiller nel 1990, ma a spese della poeta. 

Dei primi tre libri Daria dice: “contengono poesie in gran parte di sentimento vivo, di scherzo, di umorismo e risultano scritti all’insegna dell’umorismo e dell’ironia”; a cui Minazzi obietta: 

“ vi sono anche poesie estremamente serie e impegnate. (…) la tua poesia ha molti ‘luoghi caratteristici’: vi sono gli animali, le piante, la città, ecc. Tutti questi ‘particolari’ non sono affatto casuali o secondari, poiché dietro di essi e dietro il tuo modo curioso, disincantato e avido di vita con cui guardi gli aspetti ‘minimi’ della realtà quotidiana, non è davvero difficile scorgere uno spessore molto profondo e un’acutezza singolare di lettura del mondo. L’ironia appare allora come una chiave di accesso per la lettura dell’enigma della vita. (…) L’ironia denota (…) distacco dalla realtà immediata ed è pertanto rivelatrice di una lettura più profonda della multiforme varietà del mondo. L’ironia (…) ci apre le porte di un mondo più complesso e più tragico (…)”

E Daria aggiunge: 

“Il senso dell’ironia, ovvero la capacità di vedere sempre le cose un po’ scherzando, un po’ comunicando i propri pensieri più veri e riposti. (…) l’ironia è uno scavo nella gente e in me stessa. La mia ironia non è superficiale”

Dei due ultimi libri Daria Menicanti dice: 

“L’ultima parte della mia poesia è diventata ‘meditativa’, ‘filosofica’ e qualcuno dice addirittura (…) ‘sapienziale’. (…) negli ultimi due miei libri, Ferragosto (1986)  e L’ultimo quarto (1990), emerge questo senso meditativo e l’ironia non c’è e non c’è proprio perché è abbastanza contenuta (…). Naturalmente anche adesso l’ironia è presente, ma essa è presente proprio perché fa parte di me.” 

Interessante l’intervento di Matteo Mario Vecchio su questo punto:

“L’istanza sapienziale si integra con un’istanza classica dalle cifre spiccatamente banfiane, volta a una auspicata ricomposizione (che si declina, in Daria, come incuriosita, ironica, profonda, laica pietas, non esente da amare agnizioni, per la condizione umana: Terza media) di io e mondo, di soggetto e oggetto, ponendosi come esito una poesia informata a una “immediatezza oggettiva” e a una decifrabilità cosale che ne sancisca l’appartenenza (…) a uno spazio e a un tempo.”

Continua Minazzi, nel colloquio con Daria:

“Un altro ‘luogo’ presente nelle tue poesie è l’amore (…) in realtà un continente (…) Dalla tua poesia la realtà emerge con una curvatura specifica e particolare. Tu intenzioni la realtà sulla quale ti soffermi, proprio perché dall’opacità dell’esperienza indistinta, dal caos del mondo vissuto, fai emergere il cosmos della tua visione della realtà. Una visione che fa scoprire significati segreti delle cose, che seleziona aspetti non considerati e ritaglia, per così dire, un mondo nel mondo, regalandoci un ‘filo d’Arianna’ per cercare di meglio intendere il senso del nostro vivere. (…) cogli aspetti rilevanti e nascosti, introducendo delle novità di visione. (…) spesso ‘scopri e non inventi’. In realtà tu intenzioni il mondo secondo la tua avventura interpretativa più accennata che svolta, più rimandata e allusa che non motivata e illustrata.”

E Matteo Mario Vecchio precisa:

“la partecipata commedia umana di Daria Menicanti (…), le sue figurette dolenti, (…) stagliate nella luce spersonalizzante della città postmoderna, sono unite da un vincolo di irriducibile solidarietà umana o, almeno, da un comune porsi entro un contesto di legami condivisi, di condivise mitologie, di parole consuete (…) o isolate nel loro destino di abbandono e lacerazione (…) è entro lo spazio della città che si percepisce una trama di democratica solidarietà tra uomini, animali e cose, uno spazio che tuttavia pare negare la verità dei sentimenti ed esalta il progresso e la spersonalizzazione della tecnica. Al fuori della città si contrappone tuttavia un dentro (…) declinato secondo l’imperativo etico di uno sguardo laico ed esplorante da I care: angusto (…) il fuori (…), quanto infinito il dentro (della casa, dell’amicizia…), popolato da figurae e da dramatis personae inaspettate e singolari che (…) conferiscono una tonalità di (…) sprezzatura (…) nei confronti della realtà: cani, scarabei, gatte, antenne televisive, giovanotti. (…) si riscoprono nella loro umanità, nella loro tenace ricerca di legami (…) si distillano significati ulteriori, non già ricorrendo alla paludata e distorsiva ricorsività del simbolo, ma attingendo alla loro forza icastica, alla loro presenza tangibile (…). Sempre, pur nella percezione della vita che, in solitudine, si sfilaccia (…), resta tenace la parola (…), attraverso la quale è compito del poeta difendere la propria minacciata humanitas e l’umanesimo della ragione”

Daria conobbe certo la solitudine, soprattutto negli anni finali della sua vita, quando tanti di quegli amici che la temperavano cominciarono a mancare, anche se lei continuò a tenerseli accanto in memoria vivificante. 

Se da bambina i rapporti con la famiglia erano stati sempre un po’ bellicosi, da quando era tornata a Milano, Momi, così la chiamavano, aveva ripreso contatti regolari “con la madre (visite e lettere) che riempie di attenzioni, si preoccupa attivamente dei bisogni di lei, è molto generosa e disponibile. Il carattere è sempre un po’ spigoloso (…).E’ generosa anche verso tutti quelli che a lei si rivolgono, aiutandoli in tutti i modi. In tempi diversi tutte le sorelle sono state aiutate da lei e anch’io, fin da piccola.”, dice di lei la nipote Lucia. Si riavvicinò particolarmente alla sorella Lidia, sposata a Viareggio, presso cui passò molte feste canoniche e lunghi periodi di soggiorno estivo. 

Anche conobbe la lenta, sommessa esclusione dal mondo culturale che andava avanti su parametri di letteratura aziendale, di mode e maniere adattate al mercato, di festival e fiere e concorsi e passaggi televisivi finalizzati all’apparire per vendere.

Morì a Mozzate di Como nel 1995, presso la Fondazione Fornasari, dove era ricoverata dal 1993 per le precarie condizioni fisiche e psichiche, dopo un breve soggiorno presso la nipote Lucia Pezzini. 

 

Tre testi, molto casualmente scelti, per iniziare

 

La festa del grillo   da Ferragosto 

 

Questo me l’han portato dal Galluzzo.

 E’ d’uso nelle belle serenate

dell’Ascensione depredare i campi

fare gabbie di grilli.

Entro ciascuna

trema la piccola cosa acclamante

di stelle e luna

fino alla sua sorte.

Ma il mio. Lo lascio sulla via Marcello:

-Caro, l’avverto, ti contenterai

di un povero giardino di città.-

 E gli apro la guardiola. Io non ignoro

Quanto amino la libertà i poeti

 

Milano    da Città come

 

… le case brutte e nere

così come le tinse

l’empio inverno del nostro Nord (ma calde,

dentro, materne) – i Navigli fumosi

sepolti vivi sotto i marciapiedi

gobbi, con i giardini inginocchiati,

mesti, scarsi, deserti – da una legge

democratica aperti di recente

al pubblico plebeo che non li sa – 

le immagini di bronzo

di qualche dio terreno,

stazione involontaria dei colombi,

obbligato traguardo ai primi voli

di passeri sonori – 

le vaghe piante, nei ceppi ferrate,

dentro al perfetto esilio

delle nebbie ospitali

agli amori spiranti estasi sopra

le panchine gelate – 

le sirene imploranti luogo e vita – 

il tuono che improvviso sui selciati

scoppiando dai motori

improvviso dilegua intemperante

dietro altre curve

dietro altre cortine – 

gli autocarri inzuppati

di nevischi, di brine,

in sosta a notte per le vie solitarie

dopo aver galleggiato e galleggiato

sopra la nera padania, affiancati

allo struscio del Po – 

          e quei tuoi vagabondi addormentati

(sognanti di tesori o di lucenti

pulizie?) sulle giacche ripiegate

con la faccia barbuta, nelle alcove

dei ponti, aerate…

 

tutto questo che ad altri forse è pena

angoscioso rifiuto,

quando mi eri lontana,

città di case, ospite città,

a me sempre è mancato

doluto per tutte le vene.

 

Questo sempre mi attendo a ogni ritorno

come un volto cercato:

un conquistato difficile amore

novembre 1960

 

Epigramma per verme     da Poesie per un passante

 

Un verme tranquillo e bavoso

d’un roseo infantile fa il traghetto

del viale.

Mi domando perché poi

mi faccia quasi tenerezza… Ah, sì:

è perché ti assomiglia, mio diletto

Milena Nicolini

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