NOTE DI LETTURA a cura di Paolo Gera, Anna Maria Farabbi, Nella Roveri, Fabrizio Bregoli

(foto di WildOne da pixabay)

In questo numero: Elisabetta Sancino, Eleonora Federici, Giovanni Perri, Menabò, Francesco Adami, Giorgio Casali

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Elisabetta Sancino, Collezione privata, puntoacapo, 2021

Comporre una raccolta di poesia ecfrastica oggi è un atto coraggioso. La poesia che descrive le immagini di artisti, come nel caso di “Collezione privata” di Elisabetta Sancino, deve fare a meno  delle immagini a cui si riferisce, vuoi per ragioni di copyright, vuoi per i costi elevati di una pubblicazione che preveda l’inserimento di riproduzioni fotografiche. La riproducibilità tecnica ci lega a questa schiavitù ormai quasi irrinunciabile, per cui se si parla di un manufatto artistico siamo obbligati compulsivamente a focalizzarlo perfettamente attraverso la facile ricerca nel materiale proposto on line. In origine, come sappiamo bene, non era così e nell’esempio classico e fondativo dell’ecfrasi, la descrizione dello scudo di Achille nell’Iliade di Omero, il fascino dell’operazione consiste proprio nell’evocazione mimetica di ciò che si sta descrivendo, riportando medianicamente -oggi si direbbe mediaticamente- l’oggetto mancante sotto gli occhi del lettore. La poesia ecfrastica di Elisabetta Sancino obbliga intanto a un’esercitazione mnemonica o a uno slancio immaginativo meritorio, in questa nostra epoca di facilità e di pigrizia. Il suo è un libro che si può, anzi si deve leggere, senza l’ausilio di supporti aggiuntivi e il percorso che delinea è suggestivo proprio perché si muove non su una linearità assoluta e scontata, ma propone ben oltre la fedeltà descrittiva, scarti di pensiero e tradimenti segnici estremamente fecondi. Queste deviazioni sono  suggerite o dal rapporto personale con il dipinto o dalla reazione a volte esplosiva con la tradizione simbolica che l’opera porta con sè, arrivando a incidere su tematiche esistenziali e sociali ancora oggi pulsanti. Nella sezione “SOROR,SORROW”, ad esempio l’intento ecfrastico puro lascia spazio a  considerazioni dolenti sulla condizione femminile, tese in maniera consapevole sino alla cronaca d’attualità che conferma la violenza originaria di un secolo prima, attraverso la conflagrazione materica dei colori espressionisti.

Nudo piangente(EDWARD MUNCH,1912-14)

Mi chiamo Maria e mi hanno scassinata/due ragazzi perbene hanno detto/sventrata come un muro in un club esclusivo/-a quell’ora i miei bambini dormivano-/quando gli argini saltano quando saltano/tramortita di botte come una bestia/filmate tutto col telefonino/si sono presi la rosa in me piena di grazia e poesia/e l’hanno riempita di buio/il rosso mi cola sulle gambe e il nero e l’indaco/come un fiume corrotto da me che sono/Maria Figlia di Dio madre di uomini/presa da uomini figli di Dio.( SOROR,SORROW, p.31)

Le sezioni dell’opera hanno come titoli “ESTROFLESSIONI”, “SOROR, SORROW, APPUNTO, “LAVITA DELLE FORME”, “L’OLTREMARE”, “ANONIMOUS” – in cui i riferimenti non sono più riferiti a un’autoralità precisa, ma a un genere, a una corrente artistica- e per finire “COLLEZIONE PRIVATA”, che dà il nome all’intera raccolta.  Elisabetta Sancino parte da un rapporto diretto con l’immagine e subito si afferma in lei  un intento per così dire rivendicativo, che ravviva la descrizione e lascia che lo spazio dell’interpretazione si apra ad emozioni eversive. La rivendicazione dà la parola ai dipinti che si animano, in maniera particolarmente sorprendente quando la figurazione lascia spazio all’arte astratta, diventando tecnicamente loquaci e polemicamente taglienti. Il rifiuto di una assoluta precisione raffigurativa, nel nome di spunti ben più mossi e mordaci, è già presente nella prima poesia e indica la predisposizione di tutta la raccolta.

Stream of tenderness (PIERO DORAZIO,1958)

Ho flussi di anilina dentro le vene/combinati col blu di Prussia/li stendo su tele di scarto/con brevi crampi della mano destra/il mio grado di tossicità è comunque lieve/paragonato a certe facce di plastica. (ESTROFLESSIONI, p.17)

In altri casi è la modalità della ricezione ufficialmente riconosciuta che viene contestata e la sinestesia indica uno spazio in bilico tra la libertà percettiva e la difficoltà espressiva di trovare le parole appropriate per esprimerla.

Senza titolo (Giulio Turcato, 1971)

Nella sala io mi precipito sempre lì/dove l’arancio divampa/proibito toccare la tela/ma gli occhi a volte sono mani/che indugiano e carezzano e bucano/a volte invece restano occhi/come le parole che vedo nella mente/e non riesco a scrivere. (ESTROFLESSIONI, p.20)

La grande lezione dell’arte del XX secolo, da Duchamp sino alle pratiche performative, è stata quella di mettere al centro dell’operazione lo spettatore e di mettere in risalto il suo giudizio sensoriale e mentale, creando un flusso comunicativo in continua evoluzione fra l’autore e il fruitore. Questo rifiuto di esternità e di passività è totalmente condiviso da Elisabetta Sancino, sino a diventare attraverso i suoi versi particella centrifuga dell’opera in questione, onda relativistica di emozione e passione.  Ma nella poesia, come in un dipinto, i sentimenti si misurano e si raffreddano con il controllo della tecnica: è la cura studiata dei versi a temperare il tono, a non far debordare il colore. E l’onda di cui parlavo ha un doppio effetto di riverbero, perché il lettore può trovare nella poesia la sorpresa di un dipinto a cui è particolarmente legato. MI fermo dunque alla fine, in questa gara sensibile al riconoscimento e alla predilezione personale,  davanti al “Cristo alla colonna” del Bramante, a Brera, e provo, grazie al suggerimento di Elisabetta Sancino, a immaginare la madre straziata che non si scorge, “nel mondo oltre la cornice”.

Cristo alla colonna (DONATO BRAMANTE, 1480-90)

Ma sopra ogni cosa quel rosso di corda/stretta al tuo braccio d’atleta/e l’oro a missione sulla punta dei capelli/ondulati come quelli di tua madre/che ulula il suo strazio mortale/nel mondo oltre la cornice/-c’è una grazia fiamminga nel tuo morire/senza sangue.( COLLEZIONE PRIVATA, p. 65)

Paolo Gera

 

Eleonora Federici, Psychodissey, Terra d’Ulivi, 2021

Segnalo quest’opera riconoscendo all’autrice di aver fessurato  mito e follia con un solo gesto lirico, acuto e misurato.

Rientriamo nell’Odissea, alle radici della poesia occidentale, contemporaneamente nel fulcro delle dinamiche relazionali sociali e individuali. Federici pizzica le corde nevralgiche del poema ricomponendone il suono non tanto con una propria elaborazione ma con un riverbero personalizzato, imprevedibile e significativo.  Assumendosi lo stesso rischio, con capacità, scende nei fondali della follia, coniugandoli a quelle radici primarie del canto epico, con forza e identità, con parola asciutta, senza impasti di lacrime e retoriche.

Un lavoro di cultura e di concentrazione interiore sul proprio vissuto che porge frutti intensi.

Ci annuncia le coordinate del viaggio con dettaglio e rigore  Emidio De Albentiis, e Sergio Pasquandrea completa con la sua nota di lettura.

 

Giovanni Perri, Cifrario dell’invisibile, Terra d’Ulivi, 2019

L’architettura dell’opera si compone anche di filamenti di versi tratti dalla tessitura di cantautori come Ivano Fossati, Pino Daniele, Francesco Guccini, Franco Battiato, Paolo Conte ma anche poeti come Mario Benedetti, Valerio Magrelli, Milo De Angelis, Edoardo Sanguineti. In questo impasto, la sonorità pizzicata da alcune corde liriche si unisce alla fotografia in bianco e nero firmata dall’autore stesso.   La scansione di sezioni (arrivi, piani cadenze; figurae, soglie, attese; partenze, rientri) nomina un ritmo di spazi anche esistenziali.  Misura con attenzione il transito in interstizi appena percettibili vissuti drammaticamente e cantati con capacità preziosa.

C’è in Perri una ricchezza creativa lessicale notevole, una nominazione dell’invisibile mentre viene attraversato, una rigorosa, certosina, raffinata gestione della parola versata con imprevedibilità, potenziandola con accensioni e rovesciamenti di prospettiva, espansa in pagine di prosa che sfondano in spicchi autobiografici luminosi.

 

Menabò, quadrimestrale internazionale di cultura poetica e letteraria, Terra d’Ulivi, n.8 Giugno 2021

Segnalo la rivista, ormai al suo terzo anno di vita, di cui Stefano Iori è direttore responsabile, in particolare questo numero 8, particolarmente ricco. Il periodico si avvale di una squadra nutrita di collaborazioni, di un comitato redazionale quanto mai ampio e di due corrispondenti esteri quali Abele Longo per Londra e Elisabetta Bagli per Madrid, soprattutto di due altre sedi redazionali situate ad Atene e in Cina.

L’intensa spinta attenzione oltre confine, si aggiunge a altrettanta concentrazione su temi e opere e figure particolarmente significative da rimettere in luce, in lettura e in riflessione. Naturalmente, la casa editrice che sostiene l’intero progetto veicola qui il meglio della sua produzione.

Indico alcuni tra i molti articoli offerti.

Innanzitutto, quello firmato da Deborah Mega su Amelia Rosselli, Nel pulsare di tutte le moltitudini. Poeta imprescindibile e pochissimo attraversata. Altro saggio di ingrandimento su un autore di rilievo del tutto dimenticato o sconosciuto come Vsevolod Mejercho’d, Venti minuti di Antonio Duma. Aggiungo quello dedicato al grande Arsenij Aleksandrovic Tarkovskij, Tra luci e ombre di Anna Belozorovich. Alessandra Cerminara torna giustamente alla lucentezza di Saffo con Noi come le foglie, così come Sergio Sichienze, dedica, nel suo Pi greco, la sua interpretazione al ponte siciliano dei due maestri come Gesualdo Bufalino e Leonardo Sciascia. Antonio Fiori pronuncia la propria visione letteraria dei cardini aurei della nostra poesia in Poeti italiani dal novecento al duemilacento. Accanto z tutto questo, l’occhio lontanissimo di Cheng Ying, conosciuta qui in Italia per essere la traduttrice  cinese di Elena Ferrante, che, nella sua Passione per la cultura italiana, tributa omaggio alla nostra letteratura.

Ricercata per l’impostazione grafica e per le immagini.   La responsabilità  di chiamarsi Menabò credo sia un’ambiziosa scelta e un segno pubblico di consapevolezza.

Anna Maria Farabbi

 

Francesco Adami, Quatar pas cun Blintàn. Quattro passi con Bellintani, Gilgamesh Edizioni, 2021

Mi è stato donato questo libro che contiene poesie di Francesco Adami, poesie in dialetto con traduzione a fronte. Il dialetto è quello di San Benedetto Po, paese di nascita dell’autore ( che ormai da tempo vive a Praga) e di Umberto Bellintani, l’amico con cui compie i ‘quattro passi’.

È stato un dono gradito perché ritorna sulla figura di un poeta che, poco noto in vita, nonostante la grandezza e l’esordio con Mondadori negli anni cinquanta, ha passato tutta la vita appartato e solitario. Era il segretario della scuola media e viveva nella frazione di Gorgo, un gruppo di case accostate al Po. Nel 2014, centenario dalla nascita, ho curato con Elia Malagò la riedizione per Passigli della sua raccolta Forse un viso tra mille. Insieme è stato pubblicato l’inedito carteggio con don Primo Mazzolari.

Adami, con questa raccolta, vuole ricordare la sua amicizia con Bellintani, il loro trovarsi nella grande piazza del paese, dominata dalla Basilica che chiude il grande complesso benedettino, a scambiare considerazioni sul mondo e sulla vita. Rigorosamente in dialetto.

 

Stèf mia crēdar ch’an al sàpia mia

che a scrivar in dialet l’ē na cursa pèrsa

in partensa; ma second me la puesia

l’agh  ha ad chi fat lē: la völ vardà

in chi büs e in cli fisüri strēti

indua an völ pö sircar ninsün.

Siucōr, le la pensa, la vēta

la pudrēs vèsar lē, s’l’an as ved mia

da n’atra banda; e a dach n’uciada

an ē mia det ch’an as veda mia quèl.

 

Non crederete che non lo sappia

che scrivere in dialetto è una corsa persa

in partenza; ma secondo me, la poesia

ha quei fatti lì: lei vuole guardare

in quei buchi e in quelle fessure strette

dove non vuole più cercare nessuno.

Forse, lei pensa, la vita

potrebbe essere lì, se non si vede

da un’altra parte, e dare un’occhiata

non è detto che non si veda qualcosa.

Bellintani non ha scritto in dialetto le sue poesie e le sue lettere, nella lingua locale prevalentemente però si svolgevano le sue conversazioni con gli amici che andavano a trovarlo, come Adami, più giovane di quasi trent’anni. Una sorta di conversazione a distanza, uno scambio ipotetico di pareri, sempre sul senso dello stare al mondo e sulla fatica, sulla difficoltà, di una vita contadina, fatta di ritmi e di ripetizioni, di giorni sempre uguali, di tanto in tanto visitati da “fragranze di novità o tavolozze di invenzioni”, come dice Stefano Iori nell’ampia prefazione.

Nella Roveri

 

Giorgio Casali – Domestiche abitudini (Associazione Culturale Contatti, 2020)

Questo libro, particolarmente corposo, include, come recita il sottotitolo in copertina, poesie scritte fra il 2004 e il 2019, arco temporale molto ampio in cui, come succede a molti autori, avvengono numerose variazioni e trasformazioni della scrittura; l’eterogeneità dei temi e dello stile è quindi un dato di fatto, percepibile anche se in minime deviazioni, accenni. A rendere omogeneo il lavoro è, da un lato, un  certo gusto per la brevità e il sapore epigrammatico di gran parte delle poesie, che puntano alla concentrazione del senso, all’effetto netto; dall’altro, il fatto che a porsi sulla pagina sia una sorta di diario sentimentale ed esistenziale (un’opera precedente dell’autore si intitola emblematicamente “Diarietto Cattolico”), un romanzo di formazione in versi, quindi, che sceglie di narrarsi (ma mai termine sarebbe meno appropriato) per frammenti, flashback, rievocazioni talvolta accennate o ambigue, accadimenti di minimo rilievo che però assumono, nella prospettiva personale e intima dell’autore, una luce particolare, quella che merita di farsi poesia.

Assistiamo a una sorta di percorso di crescita generazionale in versi in cui l’autore, che consapevolmente sceglie di mettere in evidenza il proprio “io” senza infingimenti o schermature letterarie, attraversa il naturale procedere della propria vita mettendo in evidenza le persone che contano: così i temi che naturalmente si impongono sono quelli dell’amore filiale, genitoriale e coniugale, le passioni di una vita, il viaggio come possibilità di incontro e di crescita, il confronto con il dolore e la morte, l’intimità di tutto un mondo appunto domestico che in definitiva è terreno comune per tutti noi. C’è anche e soprattutto la musica, con numerose citazioni e riferimenti, che è compagna sempre presente nello svolgersi degli eventi e nel passare degli anni: un basso di fondo che dà il ritmo ai versi, dà loro forza. Il lettore può quindi rispecchiarsi, istituire raffronti, convergenze o divergenze rispetto all’esperienza propria, viene coinvolto in una poesia che lo richiama al dato oggettivo della sua esistenza, dell’essere uomo fra gli uomini, uomo nel mondo, uomo che dialoga con Dio: la fede è infatti l’altro elemento chiaro, il leit-motiv a partire dal quale le singole esperienze traggono motivazione, diventano insegnamento, tensione dialettica in cui si ricompone un equilibrio fra uomo e mondo.

Giorgio Casali ha la grazia di chi si avvicina, con i suoi versi, alla vita in punta di piedi, con attenzione e rispetto, senza eccessi o sbavature: questo trova conferma nello stile piano, comunicativo, parco in figure retoriche, ma ricco in incrinature, frequenti enjambement che creano tensioni interne, allusioni, possibilità. Per Giorgio Casali scrivere è un atto d’amore, la sua prova provata: “un quasi non essere / più noi”.

Fabrizio Bregoli

 

 

 

 

 

 

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