LACRIMAE RERUM 5 di Francesco Roat

(immagine di Alessandra Gasparini)

Esiste tra gli umani un malessere del tutto peculiare che deriva dalla assoluta mancanza di interesse per l’esistenza, per il mondo e per i viventi. Gli antichi greci lo chiamavano akedia (termine composto da a-kédos = senza cura), da cui l’italiano accidia. In latino era detto taedium (tedio/noia), ma ai giorni nostri c’è chi preferisce patologizzarlo, definendolo un’alterata condizione psicologica di tipo depressivo. Tuttavia, come puntualizza Ugo Borgna,[1] attenzione a non confondere la depressione neurotica o reattiva (innescata dal lutto o da una perdita significativa) con quella psicotica (immotivata ed endogena, poiché frutto di una grave malattia psichica: la cosiddetta depressione uni o bipolare), ed ancora con la malinconia come Stimmung, la quale, essendo radicata nella condizione umana causa la consapevolezza della nostra precarietà e finitudine, oggi come ieri ha ben poco a che fare con la psicopatologia.

Lucrezio, nel suo capolavoro,[2] accennando al tedio parla di un pondus (peso/gravame) situato in fondo all’animo che opprime molte persone, le quali spesso, non conoscendo le cause di un tale disagio, cercano inutilmente di eluderlo: prima allontanandosi da casa e poi ‒ una volta altrove e ancor sempre tediati ‒ tornando di nuovo alla propria dimora, senza però trovare alcun ristoro, né in essa né fuori. Pure Seneca, rifacendosi a Lucrezio, riprende il tema dell’usuale quanto vano tentativo di eliminare il taedium. “Si intraprende un viaggio dopo l’altro” ‒ scrive il nostro stoico ‒ “e si alternano spettacoli a spettacoli”. Ma a cosa giova all’uomo sofferente di noia tutto ciò, se non riesce ad allontanarsi neppure un millimetro da se medesimo? A nulla, risponde Seneca alla propria domanda retorica e, impietoso, così stigmatizza l’inguaribile annoiato: “Egli stesso si segue e si opprime, intollerabile compagno”.[3]

Semplificando alquanto potremmo cogliere, storicamente e filosoficamente, quale opzione comportamentale/esistenziale privilegiata nello stoicismo (in Seneca) la scelta di un impegno attivo (negotium) a livello sociale, e ritenere l’epicureismo (Lucrezio) incline piuttosto ad un ritiro contemplativo (otium) ed intellettuale. Due, allora, risultano le ricette alternative contro il taedium vitae per una vita buona, espresse dal pensiero epicureo e da quello stoico, le quali peraltro ruotano entrambe intorno a concetti chiave come metriotes (moderazione) ed equuus animus (equanimità/equilibrio interiore). Sia per Epicuro che per Lucrezio, infatti, intento e scopo del vivere, come del filosofare ‒ che secondo entrambi equivale ad amore della saggezza pratica ‒, è l’eudaimonia (felicità): termine che deve la sua fortuna a Socrate, il quale sosteneva d’avere presso di sé un buon demone (daimon), o spirito guida, a consigliarlo sul da farsi e su come vivere al meglio la propria esistenza, cioè su come raggiungere appunto la felicità, che per il maestro ateniese consiste nella serenità interiore: frutto di un comportamento razionale indirizzato alla virtù. Ma per gli epicurei eudaimonia equivale alla fin fine ad aponia (assenza di dolore fisico) e soprattutto ataraxia (imperturbabilità o mancanza di turbamento dell’anima).

Diversa concezione della felicità aveva lo stoicismo. Secondo Seneca ‒ come sottolinea Ivano Dionigi ‒[4] summum bonum (il maggior bene possibile) è secundum naturam vivere (vivere secondo natura); la saggezza si configura quindi come dominazione ragionevole delle passioni e non come apatia e immunità dai sentimenti. Ancora, a Roma, la capitale dello stoicismo – vale a dire della filosofia che teorizza, si diceva, il primato del negotium (nec-otium: non-ozio) e la pratica della religio (religione) come instrumentum regni (strumento di governo) ‒ l’epicureo Lucrezio rifiuta la politica, rivendicando invece giusto l’otium e stigmatizzando la religiosità come causa di tutti i mali. Scopo del verbo lucreziano è quindi sradicare dall’animo umano i due peccati originali, le due vulnera vitae (ferite della vita): la cupido vitae (bramosia della vita) ‒ quella voluttà che si traduce in malsana passione amorosa, politica, economica ‒ e il timor mortis (la paura della morte), che illanguidisce l’animo umano con la stolta paura dell’aldilà. Sia epicurei che stoici che però sono concordi nel considerare il taedium frutto di inconsapevolezza filosofica e di totale/deprecabile disimpegno, vuoi in ambito meditativo/contemplativo (Lucrezio), vuoi in quello attivo (Seneca).

I due pensatori latini, in ogni caso, non mostrano gran compassione/comprensione nei confronti degli individui che soffrono di un tale stato apatico/abulico. Ma neppure illustri autori cristiani, quali ad esempio Origene ed Evagrio Pontico, si rivelano molto caritatevoli nei confronti dell’acedia, che il primo considera alla pari d’una insidiosa tentazione diabolica (facendo riferimento a quella vinta dal Cristo nel deserto), ed il secondo ‒ a cui si deve l’enumerazione degli otto (ma poi ridotti a sette) peccati o vizi capitali ‒ condanna l’accidia, da lui definita una vera e propria atonia tés psychés (atonia dell’anima), senza possibilità d’indulgenza, reputandola colpa grave.

Assai più empatico e poco dogmatico si rivela invece il Petrarca, che, nel suo diario intimo noto come il Secretum,[5] tratta del tedio in modo assai meno moraleggiante/intransigente rispetto a tanti altri scrittori a lui precedenti, rivelando una sensibilità moderna ante litteram. Ma anche perché è lui stesso a soffrirne e parla quindi di un’esperienza vissuta/patita in prima persona, e soprattutto lo fa senza assumere accenti troppo paternalistici in un dialogo fittizio ‒ fra lui e Sant’Agostino ‒ in cui il poeta confessa/descrive la sua incurabile accidia; malessere a causa del quale: “tutto è aspro, misero e orrendo; ed è sempre aperta la via alla disperazione e a tutto quello che sospinge le anime infelici alla rovina”. A ciò si aggiunga: “l’avversione e il disprezzo (odium et contemptus) per la condizione umana”, nonché il sentirsi costantemente “oppresso” e “mestissimo”. E quando Agostino chiede al poeta se qualcosa almeno gli rechi piacere, Francesco risponde con sincerità encomiabile: “O nulla o davvero ben poche cose (Aut nihil aut perpauca quidem)”.

Così gli argomenti addotti dal filosofo di Ippona non riescono minimamente a scalfire il disagio del Petrarca, il quale non fa che denunciare/circostanziare la propria condizione problematica: “Io, per di più, sempre dubbioso del futuro, sempre incerto nell’animo (semper animus suspensus), non ricevo alcuna dolcezza dai favori della fortuna. Per questo, come vedi, vivo finora per gli altri; cosa che tra tutte è la più miserabile”.

Tristezza, incertezza e timore costanti, coniugati ad una profonda delusione rispetto all’esistenza ed agli uomini tutti paiono qui caratterizzare l’accidia dello scrittore. Uomo peraltro assai creativo/attivo, quantomeno nell’ambito poietico. Eppure ciò non gli basta. Come se ‒ è lecito supporlo ‒, una volta terminata la stesura dei versi: sempre troppo breve parentesi di sospensione della noia/nausea, implacabilmente tornasse a visitarlo il demone del mezzogiorno (per dirla con Evagrio Pontico), paralizzandolo/angustiandolo. Però con buona pace di quanti, specie nel medioevo, videro l’acedia causata/caratterizzata solo dal disimpegno o meglio dall’assenza dell’ora et labora, il Petrarca sembra voler testimoniare come ciò non sia vero, in quanto egli lavorò ed a suo modo pregò pure, da chierico qual era, ma purtroppo invano.

Un altro grande poeta della nostra tradizione, Giacomo Leopardi, fu assillato dal tedio, su cui egli scrisse in numerose occasioni, specie nello Zibaldone,[6] l’immenso manoscritto in prosa di pensieri, frammenti, appunti, commenti e considerazioni varie che lo accompagnò lungo gli ultimi vent’anni della sua non lunga vita. Basterebbe anche solo questo folgorante aforisma a dimostrare la lucidità/perspicacia della sua riflessione: “Anche il dolore che nasce dalla noia e dal sentimento della vanità delle cose è più tollerabile assai che la stessa noia”.

Mediante un distinguo sottile il Nostro prende atto di come una condizione esistenziale all’insegna del tedio generi sofferenza psichica e delusione (per la vanitas vanitatum); ma sottolinea che la noia in sé comporta un disagio ‒ una negatività esistenziale ‒ maggiore della mera tristezza e/o frustrazione derivanti dal tedio. Esso assume qui una valenza negativa in un certo qual senso intraducibile a parole, e quasi ontologica. Al nihil, al buco nero del tedio si può solo alludere, mai lo possiamo definire, essendo una vacuità priva di elementi positivi. Scrive infatti Leopardi in riferimento alla noia: “Com’ella è figlia della nullità, così è madre del nulla: giacché non solo è sterile per sé, ma rende tale tutto ciò a cui si mesce o avvicina”.

Contro di essa ‒ sembra di poter desumere dai testi del recanatese ‒ ogni difesa/risorsa è vana ed essa rappresenta la sconfitta dell’ingegno umano, che ben poco può nel tentativo di sfuggirla/contrastarla. Altra caratteristica del tedio: la sterilità che esso diffonde, come per contagio, letteralmente mortificando quanto entra nel proprio raggio letale. Ancora, non solo inguaribile si rivela tale malessere, a detta del poeta, ma persino incurabile: “la pura noia, il puro nulla, né il tempo né alcuna forza possibile (…) non basta a renderlo meno intollerabile. Ogni momento di pura inazione è tanto grave all’uomo dopo dieci anni di assuefazione, quanto la prima volta”.

Interessante è pure il nesso che Leopardi prospetta tra tedio e (ossessiva) ricerca di soddisfacimento. “In qualunque cosa tu non cerchi altro che piacere, tu non lo trovi mai: tu non trovi altro che noia, e spesso disgusto. Bisogna, per provar piacere in qualunque azione ovvero occupazione, cercarvi qualche altro fine che il piacere stesso”. Verrebbe da desumere che la noia funesti soprattutto non appena chi è mosso da questa o quella brama, ma chiunque cerchi ‒ tramite il piacere ‒ di esorcizzare la noia che, al contrario, viene così da lui incrementata.

Da un brano dello Zibaldone, datato 8 marzo 1824, emerge a chiare lettere il pessimismo dell’autore: “La noia è manifestatamente un male, e l’annoiarsi una infelicità. Or che cos’è la noia? Niun male né dolore particolare, (anzi l’idea e la natura della noia esclude la presenza di qualsivoglia particolar male o dolore), ma la semplice vita pienamente sentita, provata, conosciuta, pienamente presente all’individuo, ed occupantelo. Dunque la vita è semplicemente un male: e il non vivere, o il viver meno, sì per estensione che per intensione è semplicemente un bene, o un minor male, ovvero preferibile per sé assolutamente alla vita”.

Abbiamo qui una precisazione di non poco conto. Paradossalmente ‒ per il Nostro ‒, a ben considerare non vi sarebbe alcuna sofferenza peculiare propria della noia o da questa derivante; semmai ogni forma di scontentezza proverrebbe dall’esistenza stessa. Da cui l’equivalenza tra vita e infelicità o male. Concezione pessimistica di antica data, analoga a quella espressa dal Sileno al mitico Re Mida che aveva chiesto al satiro quale fosse la cosa migliore per l’uomo, ottenendo la seguente risposta, così ben riproposta da Nietzsche: “Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto”.[7]

In una nota del 1820 Leopardi tratta di un “affogamento” ben diverso dal dolce “naufragar” espresso nella poesia L’infinito, in quanto esso. “nasce dalla certezza e dal sentimento vivo della nullità di tutte le cose (…) e dalla immensità del vuoto che si sente nell’anima!”; ed è un sentirsi annichilire che appare: “più sepolcrale, senz’azione senza movimento senza calore, e quasi senza dolore, ma piuttosto con un’oppressione smisurata”. Torna qui la sottolineatura d’uno stato psichico contraddistinto da una sorta d’anestesia emozionale, il quale tuttavia viene avvertito come soffocante e intollerabile.

Altrove il poeta, riferendosi alla noia, scrive che tale “pena” deriva dal “desiderare invano”. E mi sembra colpisca davvero nel segno. Forse è l’illusoria tensione desiderante ‒ che non riesce ad acconsentire alla realtà del qui e ora ‒ a generare/alimentare il taedium vitae. A tale proposito mi si consenta un’autocitazione: “In fondo sta tutta qui la hybris/vacuità del desiderare invano: credere a un miraggio o meglio correr dietro a esso − magari intuendo/presagendo che si tratta di una illusione ‒; prefigurarsi sempre nuovi e improbabile soddisfacimenti ulteriori/futuribili per il mero gusto di farlo, accontentandosi dei magri dividendi di una tale operazione fantasmatica, piuttosto che passare dalla sterile e ipertrofica velleità di tutto avere, sperimentare, gustare e/o godere alla volontà/decisione di vivere pienamente, consapevolmente e serenamente il presente, qualunque cosa esso rechi con sé, essendo perciò in grado di accettare, anzi di accogliere il venir meno, la perdita, il dolore. In una tale prospettiva la stessa concezione di felicità quale possesso o accrescimento può mutar di segno, se facciamo nostra l’idea che essa possa darsi pure nella spoliazione o nel declino, come suggeriscono gli splendidi versi finali delle Elegie duinesi di Rilke”.[8]

Ed ecco la conclusione della decima elegia:

 

«Ma se risvegliassero, i morti senza fine, una metafora in noi,

vedi, forse indicherebbero gli amenti degli spogli

noccioli, penduli, oppure

accennerebbero alla pioggia, che cade sulla terra scura in primavera. –

E noi, che pensiamo a una felicità in ascesa,

avvertiremmo la commozione,

che quasi ci sconcerta,

quando qualcosa di felice cade».

Francesco Roat

[1]  U. Borgna, Malinconia, Feltrnelli, Milano 1992.

[2]  Lucrezio, De rerum natura, libro III.

[3]  Seneca, De tranquillitate animi, libro II.

[4]  I. Dionigi, Quando la vita ti viene a trovare. Lucrezio, Seneca e noi, Laterza, Roma-Bari 2018.

[5]  F. Petrarca, Secretum (De secreto conflictu curarum mearum), Libro II.

[6]  G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, a cura di F. Cacciapuoti, Donzelli, Roma 2014.

[7]  F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano, 1979, cap. 3.

[8]  F. Roat, Desiderare invano. Il mito di Faust in Goethe e altrove, Moretti&Vitali, Bergamo 2015.

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