ESSERE UMANE di Nella Roveri

L’umanità si attarda nella grotta di Platone, continuando a dilettarsi, per abitudine secolare, di semplici immagini della verità. Ma esser stati educati dalle fotografie non è come esser stati educati da immagini più antiche e più artigianali: oggi sono molto più numerose le immagini che richiedono la nostra attenzione; l’inventario è cominciato nel 1839 e da allora è stato fotografato quasi tutto, o almeno così pare; questa insaziabilità dell’occhio fotografico modifica le condizioni di prigionia in quella grotta che è il nostro mondo; insegnandoci un nuovo codice visivo, le fotografie alterano e ampliano le nostre nozioni di ciò che val la pena guardare e di ciò che abbiamo il diritto di osservare; la conseguenza più grandiosa della fotografia è che ci dà la sensazione di poter avere in testa il mondo intero, come antologia di immagini; nelle fotografie l’immagine è anche un oggetto, leggero, poco costoso, facile da portarsi appresso, da accumulare, da conservare. Le fotografie sono forse i più misteriosi tra gli oggetti che formano, dandogli spessore, quell’ambiente che noi definiamo moderno. Esse sono in realtà esperienza catturata, e la macchina fotografica è l’arma ideale di una consapevolezza di tipo acquisitivo. Fotografare significa infatti appropriarsi della cosa che si fotografa. Significa stabilire con il mondo una relazione particolare che dà una sensazione di conoscenza, e quindi di potere. (S. Sontag, Sulla fotografia, Einaudi, 1977).

La riflessione di Susan Sontag era stata preceduta da quel saggio, Piccola storia della fotografia (1931), in cui Walter Benjamin aveva cominciato a ragionare sul carattere proprio dell’immagine fotografica: “La natura che parla alla macchina fotografica è una natura diversa da quella che parla all’occhio; diversa specialmente per questo, che al posto di uno spazio elaborato consapevolmente dall’uomo, c’è uno spazio elaborato inconsciamente”. Sontag e Benjamin non si pongono il problema di chi sia dietro l’obiettivo, se si tratti di un uomo o di una donna, perché la fotografia è una tecnica troppo recente per risentire, come accade a tutte le altre forme di lavoro e di arte, dell’oscuramento femminile nei secoli. Uomini e donne si sono cimentati in essa fin dalla sua nascita. E furono anche donne a raccontare la fotografia: Lucy Moholy-Nagy, attiva nel Bauhaus, ne scrisse la storia alla fine degli anni trenta e Naomi Rosenblum, guardando al versante femminile, pubblicò, nel 1994, A History of Women Photographers. In anni più recenti, il romanzo di Elena Janeczek, La ragazza con la Leica, ha avvicinato a noi la figura di una giovane fotografa, Gerda Taro, morta nella guerra civile spagnola, che aveva documentato con indomita forza; poi inghiottita dalla fama del compagno Robert Capa. E Elisabetta Rasy, nel suo ultimo libro, Le indiscrete (Mondadori, 2021), racconta di cinque fotografe (Tina Modotti, Dorothea Lange, Lee Miller, Diane Arbus e Francesca Woodman) che hanno saputo fare della loro “indiscrezione” la leva del coraggio di guardare il mondo e se stesse e di farci guardare attraverso il loro sguardo. A Forlì, nei suggestivi spazi dei Musei San Domenico, è ancora aperta una mostra di fotografie scattate da donne, Essere Umane appunto.                                                                                                    L’attenzione all’esperienza artistica di genere ha un suo discreto nobile passato da quando Lea Vergine propose, nel 1980, la mostra di Palazzo Reale a Milano, L’altra metà dell’avanguardia che, pur riguardando pittrici e scultrici, apriva per la prima volta all’arte femminile e poneva la questione dell’oscuramento del versante femminile nella storiografia. “Ho cominciato questo lavoro per fare giustizia, per togliere le orchidee dall’obitorio e mi si sono spalancati davanti gli inferi”, dice Lea Vergine. 

La mostra di Forlì si pone all’altro capo di questa esperienza: trenta fotografe, tutte donne, che, dagli anni trenta del Novecento a oggi, guardano e raccontano il mondo nelle sue pieghe complesse, nella sua varietà e nelle sue contraddizioni.

Molti nomi di fotografe sono oggi noti e riconosciuti, da Tina Modotti a Letizia Battaglia, da Lisetta Carmi a Dorothea Lange, da Carla Cerati a Diane Arbus, ma quello che ancora forse è poco esplorato, non semplice da definire e approfondire, è la differenza dello sguardo femminile sul mondo. Il primo passo si compie attraverso la volontà della fotografa di rompere la struttura gerarchica che imbriglia l’atto del fotografare e l’oggetto fotografato; l’immagine non è più rubata da un occhio che si annulla, ma è il frutto di un rapporto di scambio paritetico in cui la fotografa diventa essa stessa oggetto fotografico. Non solo perché si pone dall’altra parte dell’obiettivo, ma perché rende chiaro a chi legge il suo lavoro che non indaga nelle storie altrui con occhio antropologico, sociologico, o con il distacco professionale altrove accampato come necessaria misura, ma sta dentro le storie, chiama a raccolta le persone, esalta il valore delle storie individuali che si offrono liberamente all’obiettivo e, tra le storie, non esita a inserire la propria.

Negli stessi anni in cui Lisetta Carmi lavora al volume I travestiti (Essedì ed., 1972), Carla Lonzi elabora la sua personale idea di arte e di critica d’arte nel volume Autoritratto, stampato in poche copie dall’editore De Donato nel 1969. Qui l’idea sottesa all’incontro con quattordici artisti è che la cultura non può essere una costruzione teorica separata dalla vita e che la critica d’arte non può più essere un corpo estraneo che si nutre con accanimento del lavoro creativo. Lonzi propone un modo di stare, come critica d’arte, dalla parte degli artisti, condividendone temi e tempi in una frequentazione non episodica e non strumentale. L’esito della ricerca è la negazione di legittimità ad ogni intervento critico. Non è un caso che delle centocinque fotografie presenti nel volume solo diciannove riproducano opere d’arte; tutte le altre ritraggono momenti di vita, incontri, feste, memorie personali, luoghi; il discorso sulle opere è sempre frutto di uno scambio, di una conversazione che restituisce agli autori e alle autrici la priorità assoluta, e insieme la responsabilità, nel parlare delle proprie opere.

Per Lonzi, Autoritratto stabilisce una sorta di punto di arrivo nella riflessione sul lavoro critico e, subito dopo, si allontana da quella professione per volgere lo sguardo a una modalità femminile di leggere la contemporaneità. Come se quel modello le avesse consentito di verificare che solo nell’esperienza delle donne esso è possibile. 

… diciamo all’uomo, al genio, al visionario razionale che il destino del mondo non è nell’andare avanti sempre come la brama di superamento gli prefigura. Il destino imprevisto del mondo sta nel ricominciare il cammino per percorrerlo con la donna come soggetto.

Riconosciamo a noi stesse la capacità di fare di questo attimo una modificazione totale della vita. Chi non è nella dialettica servo-padrone diventa cosciente e introduce nel mondo il “Soggetto Imprevisto”. (C. Lonzi, Sputiamo su Hegel, Scritti di Rivolta Femminile, 1970).

Ed è proprio il “Soggetto Imprevisto” a scardinare l’assetto patriarcale del mondo nelle fotografie esposte a Forlì. Superate o negate le vie dell’emancipazione e scartata la piega della parità in nome di una differenza di atteggiamento e di sguardo, le fotografe incontrano luoghi, personaggi, situazioni in una scansione temporale che va dal 1920 ad oggi. 

Nella prima sezione, fino al 1960, vengono presentate undici figure di fotografe che ritraggono eventi epocali, come la rivoluzione messicana (Tina Modotti), la guerra civile spagnola (Gerda Taro), la guerra in Europa (Lee Miller), le condizioni dei migranti e dei lavoratori agricoli negli Stati Uniti (Dorothea Lange), ma anche la vita sulla spiaggia o le sfilate degli stilisti afroamericani (Eve Arnold).

Le immagini dal 1960 al 2000 sono esemplificative di una nuova forma di reportage, di una ricerca sui grandi stravolgimenti di questo periodo, concentrandosi su storie da raccontare in primo piano, scavalcando i canoni della rappresentazione del ‘diverso’ (Lisetta Carmi, Susan Meiselas, Diane Arbus e Dayanita Singh). In questo periodo emerge anche la consapevolezza del ruolo femminile nella società, nella Palermo di Letizia Battaglia e nella Milano del boom economico ritratta da Carla Cerati. Infine gli ultimi vent’anni documentano i cambiamenti dovuti alla globalizzazione, al cambiamento radicale nelle modalità e nei tempi della comunicazione di massa e vedono emergere artiste provenienti da paesi extraoccidentali, munite di una personale visione del ruolo femminile all’interno dei moderni contesti economici e culturali.

La foto di apertura della mostra è quella di Dorothea Lange, The Migrant Mother, che, attraverso la dignità del volto femminile, muove empatia in chi guarda, affermando la ricerca di questo sentimento come connotazione di genere. Allo stesso modo, Lee Miller, durante le sue incursioni nelle abitazioni del führer, dopo la fine della seconda guerra mondiale, compie il gesto beffardo di fotografarsi nella vasca da bagno di Hitler, gesto che prende senso solo se compiuto da una donna. Ma è nell’ultima sezione dell’esposizione che emerge con forza la valenza politica della fotografia femminile; qui si rovescia il concetto di marginalità e di centralità e le foto di realtà lontane, di orizzonti che scavalcano l’occidente, non sono più delegate alla mano d’altri. Così Zanele Muholi, sudafricana, ritrae se stessa accentuando il nero della pelle, affermando la propria appartenenza e ribaltando gli stereotipi occidentali; e l’iraniana Shadi Ghadirian, che con ironia offre al nostro sguardo una riflessione sulla situazione femminile nell’Iran contemporaneo.

Nella Roveri

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