RIPENSARE L’INTERCONNESSIONE TRA GLI ESSENTI DEL MONDO, di Milena Nicolini

(immagine di Alessandra Gasparini)

Ancora costeggiando le riflessioni sulla necessità  di ripensare l’interconnessione tra gli essenti del mondo

Emanuele Coccia, Metamorfosi, Einaudi, Torino 2022

      1-Anche se era da tempo che la necessità – o meglio, la profonda giustezza – di questo pensiero si  era presentata alla concezione del mondo occidentale – per non dire che c’era sempre stata dall’avvio dei sapiens, semplicemente relegata poi ai margini, fino all’insabbiatura, con l’affermarsi delle culture e civiltà basate sull’aggressione, sulla violenza e sulla rapina della guerra, del possesso e della prevaricazione – ; è soprattutto dal manifestarsi apocalittico della tragedia ambientale, inclusa l’esperienza in atto della pandemia, che questo pensiero, variegato di tutte le sfumature che i diversi presupposti concettuali e i diversi metodi conoscitivi implicano, si concretizza in libri, dibattiti, nuove abitudini linguistiche, e pure in nuova consapevolezza della gente, ancora limitatissima, ma con la forza di una rivoluzione quantistica. Stiamo parlando del pensiero inerente la stretta interconnessione e  la mutua trasformazione di ogni esistente dell’universo  e quindi la consapevolezza della reciproca influenza. Dice Letizia Tomassone nel suo Crisi ambientale ed etica. Un nuovo clima di giustizia, edizioni Claudiana, 2015: 

“siamo tutti e tutte polvere di stelle, fatti e fatte della stessa materia, tutti degradiamo e torniamo alla stessa e unica materia, per nutrire il ciclo di Vita: decomposizione e rigenerazione.”(p.85)

     Qualche mese fa, con mio gran ritardo, ho proposto una riflessione (Dalla riflessione teologica ecofemminista  una proposta anche laica e universale) sul bel libro di Letizia Tomassone, che, nella coralità di molte voci femminili orientate per la maggior parte da una meditazione teologica, propone una nuova concezione del mondo che contribuisca nella crisi globale a trovare nuove forme di convivenza e interscambio paritario tra tutti gli esseri del mondo.

Vorrei ora rivolgere la mia attenzione al libro di Emanuele Coccia, non tanto per una sollecitazione dai suoi passaggi televisivi (è stato in dialogo col giornalista Giorgio Zanchini nella rubrica Quante storie di Rai 3), quanto per le reazioni di grande interesse e insieme di grande perplessità che ha suscitato in me e che vorrei condividere per un possibile confronto. 

        2-Alcune premesse e precisazioni sono necessarie alla mia riflessione.

2.1-Per le mie personali riflessioni uso il termine ‘essente’ e non ‘vivente’, perché, anche se i temi di interconnessione includono quasi sempre l’ambito animale, vegetale e minerale, in realtà, dagli esempi proposti al linguaggio usato, si nota in genere una decisa sperequazione a svantaggio del terzo ordine, quando proprio non venga emarginato per una mancanza di caratteri che appaiono nelle classificazioni canoniche, ancora accettate, di ciò che è chiamato ‘vivente’. Siamo ancora ben lontani dalla spontanea immediatezza con cui Francesco cominciava la lauda delle creature da essenti ‘non-viventi’ – sole, stelle, vento, acqua – per arrivare quindi solo alla fine del cantico alla totalità degli essenti sulla terra e all’uomo, non a caso identificato nella sua massima fragilità con la possibilità di peccare (e quindi di errare) e dalla sua paura della morte. E ancora siamo lontani dal conseguente suo sentire ‘fraterno-sororale’, che non assomiglia affatto a quella retorica e imperiale (linguisticamente e concettualmente maschia) ‘fraternità’ che, veleggiando per libri sacri e caritatevoli intenzioni, spesso, come ci fa notare Tomassone, non dimentica quella posizione di supremazia e potere dell’uomo per cui egli considera tutto il resto del creato alla luce dell’utilità che può trarne. A questo proposito vorrei sottolineare che se Francesco, molto concretamente, non nasconde il bene pratico che all’uomo può venire dagli essenti che stanno nel mondo, però, sempre, se ne lascia pervadere per la semplice bellezza, la giocondità, il senso vitale della comune creaturalità.    

2.2-Per le mie scarne conoscenze e per i limiti oggettivi della ricerca  non  posso affermare che l’uomo primitivo avesse rispetto a noi un senso ben più profondo e naturale dell’interconnessione con tutto il resto del creato, ma l’osservazione di popolazioni non troppo contaminate dalla ‘civiltà’ e dal suo rapportarsi all’ambiente mostra in genere un senso del loro esistere non disgiunto dall’esistere di tutto il resto, che appunto non è mai ‘resto’, ma intreccio reciproco. Mi viene in mente quanto, alle nostre perplessità circa i rischi, ci disse una ragazza india che ci faceva da guida in una foresta venezuelana, al momento di attraversare un largo fiume, sotto l’arco di una possente cascata, per uno stretto scivolosissimo camminamento che non aveva corrimano e che poteva facilmente provocare una mortale caduta nello schianto delle acque della cascata: “Naturaleza!”. ‘Natura’. Se fosse successo, sarebbe stato un evento naturale come il frantumarsi di un sasso in una frana. E quanta assenza di risentimento o superiorità!, nell’additarci  la coloratissima piccola rana dal veleno mortale solo a sfiorarla, le operosissime enormi formiche la cui puntura dava febbre altissima, l’albero il cui legno era quello per le canoe, le grandi foglie sotto cui ripararsi come ombrelli dalla pioggia. 

     Del Neolitico, però, abbiamo tracce archeologiche e resistenze mnestiche nel nostro corredo cognitivo-etologico (miti, riti, costumi), per le quali appare che la cultura di quella società matrilineare, al cui centro era la Grande Madre, si fondava su un egualitarismo di base, senza gerarchie non solo nell’organizzazione del lavoro e nella fruizione dei suoi prodotti, ma anche in ambito religioso e civile; mancava inoltre la supremazia sociale di armi e guerrieri; era profondamente sentita l’interconnessione con la natura, mediata da una reciprocità maternale-creaturale che la Grande Madre incarnava. A Çatalhöyük (Turchia, presso Konia, 7.000-5.000 a.c.) come presso alcune tribù di nativi americani assai più recentemente,  i morti erano esposti alla consumazione da parte di animali fino alle loro ossa, in un’intima restituzione che ha senso solo per uomini che si sentano tutt’uno con gli altri essenti della natura. Vi sento la realizzazione della metafora che Tomassone propone, sulla scia del pensiero di McFague:

“la nostra posizione nel mondo è di esserne cibo. Trasformarci da predatori, in coloro che ne godono la grazia e la bellezza e, al tempo stesso, sono sconvolti per la sofferenza e la miseria, per l’inquinamento e l’ingiustizia. Dobbiamo diventare cibo che nutre” ( Cit, p.107)

La Grande Madre si connotava per segni e simboli che la tatuavano della natura tutta: l’acqua, gli animali, il nutrimento, la generazione, i corpi celesti. Parafrasando teologi del Dio di oggi, si potrebbe dire che la natura tutta era il corpo della Dea. 

2.3-Tutte le sottolineature nelle citazioni sono mie.

 3-Emanuele Coccia, in Metamorfosi, Einaudi, Torino 2022, costruisce la sua riflessione su presupposti che la scienza attuale e un po’ meno attuale ha offerto alla conoscenza: dalla legge di Lavoisier  (per cui nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma; a parte – dico io –  quella inaspettata quantità che si perde nel processo di conversione di energia termica in altre forme di energia, come dice il secondo principio della termodinamica); dall’evoluzionismo di Darwin (rivisitato da Coccia molto originalmente); ai passati e attuali studi di botanica e biologia, nonché alle teorie ecologiste (contestate in toto per la loro pretesa di controllare artificiosamente un processo che per l’autore è e deve essere liberamente soggetto a costante metamorfosi); ai più recenti risultati dello studio delle microparticelle, inerenti soprattutto il loro costante movimento di aggregazione e separazione, da cui viene quella medesima cadenza universale di interrelazione e trasformazione dinamica che dà forma ai diversi stati della materia. 

     Ogni cosa è una forma diversa e originale in cui la vita si è trasformata, prendendo da ‘pezzi’, brandelli, atomi di qualchecosa d’altro, i quali di metamorfosi in metamorfosi possono risalire all’inizio stesso dei tempi e che, proseguendo nel loro divenire altro da quella forma, possono arrivare al futuro più lontano immaginabile. Anche se Coccia usa più frequentemente il termine ‘vivente’, in più punti sottolinea che si tratta di un processo coinvolgente ogni forma della realtà animale, vegetale, minerale, non solo in quanto ogni forma può avere in sé parti di questi diversi aspetti materici, ma anche perché occorre saper vedere nell’apparente continuità longeva di una certa forma la sua costante metamorfosi costitutiva e disgregativa: un esempio per tutti, i corpi celesti, i quali nascono dall’aggregazione di altri corpi, mutano continuamente nel rapporto con altre forze, sostanze e composti, muoiono divenendo altre configurazioni astrali e non. 

“La moltiplicazione dei corpi e degli io – ciò che chiamiamo nascere – è in primo luogo un processo di trasformazione dei corpi esistenti. (…) Se nasciamo è perché ciascuno di noi, nel corpo come nell’anima, è una parte del mondo. Nascere si riduce a questo: è la prova che noi siamo la metamorfosi, una piccola variazione di una parte infima della carne del mondo. (…) In un certo senso, tutti i viventi sono lo stesso corpo, la stessa vita e lo stesso io che continua a passare di forma in forma, di soggetto in soggetto, di esistenza in esistenza.” (cit., p.21) 

Il termine che forse ha più ricorrenze nel saggio è “corpo”, spesso variato dal termine “carne” e spesso diviso in parti che sono chiamate “pezzi”.  Come si vede nel brano riportato, veicolano un immane senso materico, che si differenzia dal vecchio ‘materialismo’ solo per un sotteso riferimento ad un mondo atomico e subatomico non più epicureo, ma quantistico. A parte, forse, quest’“anima” che fa capolino come uno ‘straniero’ sbarcato da un barcone sulla costa di Lampedusa.

     Gli individui e le specie si relazionano tra loro  in modo metamorfico: il rapporto non è mai solo un contatto, ma sempre una sorta di contaminazione con un (apparente) diverso da sé;  Coccia invita a pensare all’atto del mangiare di noi umani: “diventiamo animali” (p.85), in quanto per sussistere noi dobbiamo cibarci del corpo di altri viventi. Fa notare che il nutrimento avviene quasi sempre tra specie diverse, cosa che per lui dimostra come la vita sia sentita identica in chi è cibo e in chi è divoratore. Io mi chiedo, però, se proprio non c’è da rilevare qualcosa di più complesso: in molte specie animali è comunque normale cibarsi di propri consimili (dalla mantide religiosa, ai maschi di molte specie – leoni, orsi, ecc. –  che possono aggredire e divorare i propri piccoli, se la madre non è attenta a difenderli), mentre nell’uomo, invece, a parte alcuni casi residui di cannibalismo – i quali, peraltro, studiati da eminenti etologi mostrano spesso caratteri sociali molto più complessi della foga divoratrice – la cultura ha sviluppato un potentissimo tabù. La CULTURA, vel CIVILTA’ (termine purtroppo poco appetibile, oggi), cioè quella artificiosa costruzione millenaria, non genetica, ma trasmissibile per SCELTA solo da individuo a individuo da genitori a figli, da tradizione a innovazione, che Levi Montalcini metteva a unico discrimine tra l’uomo delle caverne e l’uomo contemporaneo. E’ una parola che mi pare mai compaia nel saggio di Coccia, anche se certamente sottintesa, negativamente mi pare, in certi punti, come il capitolo sulla città. Forse per evitare il rischio di ritornare sulle orme che si vogliono cancellare della pretesa superiorità umana. C’è invece in Coccia un’insistenza cruda sulla catena metamorfica della vita-cibo, che passa di corpo in corpo in variazioni divoratrici. Mi ricorda la celebre battuta di Amleto in risposta al Re che gli chiede dove sia il cadavere di Polonio:

“A cena. (…) Non dov’egli mangia, ma dov’è mangiato (…) noi ingrassiamo tutte le altre creature per ingrassarci, e ingrassiamo noi stessi per i vermi. Un re grasso e un mendicante magro, non sono che un servizio variato, due piatti, ma per una sola tavola (…) un uomo può pescare col verme che s’è cibato d’un re, e mangiar del pesce che s’è pasciuto di quel verme. (…)[voglio] mostrarvi come un re possa fare un solenne viaggio attraverso le budella d’un mendicante.” (Amleto, atto IV, scena III, traduzione di Mario Praz)

Coccia precisa che non si deve considerare negativamente questa catena, in quanto essa rappresenta “la necessità di incontrare l’altro, di diventare altro passando attraverso la vita di un’altra specie” (p.95). E’ vero che per vivere si deve mangiare, ma anche qui sarebbe interessante per me aprire una riflessione sulla ‘violenza’ che impone la sussistenza vitale e su quanto di eticamente (e disperatamente, perché comunque limitato all’ordine animale) forte ci può essere nella scelta dei vegetariani-vegani, nonché dei combattenti per i diritti delle altre specie.  ‘Violenza’, ‘etica’, ‘morale’, e ‘amore’, altre parole che non compaiono nel saggio. Forse perché scientificamente inutili, logicamente incompatibili.

     La metamorfosi ci conduce a “una sola sostanza”, è “la cicatrice” che relaziona ogni cosa ad essa, quindi è “il processo” stesso che la “costruisce”. Non si tratta di una qualche forma di dato, ma di “possibilità onnipresente”, quindi di “futuro”, di “realtà” potenziale. A cui avvia soprattutto con la morte. La morte è infatti “apertura e continuità tra tutte le vite”: questa trasformazione è attesa come necessaria, un “antico respiro, onnivoro e ibrido” che è sempre pronto a trasformarsi in altro. Questo tipo di metafora, accorpata a termini definitori, caratteristica stilistica dell’autore, a me rende in genere il concetto più indefinito. Chiarissima invece la conclusione del tema ‘morte’: “La metamorfosi non è un destino di immortalità.” (pp.131/2)

     L’immagine – non metaforica – centralissima che usa l’autore  per rendere l’idea di questa universale metamorfosi è quella del “bozzolo”, in cui il bruco si chiude per trasformarsi in insetto con le ali, non per scelta volontaria, ma per “una forza più antica del corpo che essa plasma, e opera in autonomia. (…) La vita che attraversa il bruco e la farfalla non può ridursi né all’uno né all’altra. E’ una vita capace di abitare e accogliere diverse forme contemporaneamente” (p.52). E inoltre permette di “passare da un’esistenza all’altra senza dover morire e rinascere”, quindi di “stravolgere il mondo senza toccarlo.” (p.50). 

     La metamorfosi non riguarda la forma intera di un corpo, ma la relazione che c’è tra le parti del corpo e che dà ad ognuna una propria autonomia di vita, come i recenti studi sulle piante hanno chiaramente mostrato. Connessa e interessante è l’attenzione che Coccia pone al continuo ringiovanimento presente nella metamorfosi. La forza di ringiovanimento o la vecchiaia non sono infatti legate all’età, ma al bisogno di sviluppo e riproduzione dei viventi: si tratta di parti che finiscono o rinascono secondo le esigenze del vivente; ad esempio cadono i denti da latte e nascono quelli nuovi che dureranno in genere per il tempo del bisogno; il feto nasce con organi morti perché ormai inutili come le branchie; la pelle del serpente viene ciclicamente rinnovata; la specie ringiovanisce attraverso la nascita di nuovi individui. Dopo avere proposto il caso davvero eccezionale del ciclo vitale della medusa Turritopsis dohrnii, Coccia afferma che tutti i viventi possono “secernere l’infanzia, manipolare il proprio corpo, distruggere le proprie ossa, la propria carne, troppo coriacea, troppo vissuta per distillarne una giovinezza futura.”, che è il “miracolo della metamorfosi” (p.73). 

     Uno dei temi per me più inquietanti è la quasi totale scomparsa dell’individualità, intesa non come elemento particolare, anche irripetibile, di un qualche insieme, ma come valore associato alla possibilità di scelta e comprensivamente maggiore della somma delle parti. Coccia infatti considera l’individualità  come semplice mosaico sommatorio – certo sempre differentemente variato – di parti diverse e autonome, che si muovono casualmente ad aggregarsi, sospinte da una abbastanza misteriosa forza primordiale:  

 “il fatto che siamo tutte e tutti la carne della Terra e la luce del Sole che reinventano un nuovo modo di dire “io”, non ci condanna a un’identità. Al contrario, è in virtù di questa parentela molto più intima (siamo la Terra e il Sole, siamo il loro corpo, siamo la loro vita) che dobbiamo negare, in ogni istante, la nostra natura e la nostra identità e [siamo n.d.r.] costretti a plasmarne di nuove. La differenza non è mai una natura, ma un destino e un compito. Siamo costretti a diventare diversi, siamo costretti a metamorfizzarci.” ( p.22)

Nasciamo sempre in un corpo altro dal nostro: è esattamente questo che chiamiamo natura. (…) Natura non è sinonimo di  essenza. (…) Essere nati (…) significa dover costruire, fabbricare il nostro corpo a partire dalla Terra (…) Nascere (…) è fare esperienza di essere un pezzo del corpo infinito del mondo che inventa un altro modo di dire “io”. (…) Nascere (…) significa essere incapace di separare la propria storia da quella del mondo, di fare una distinzione tra locale e globale. (…) E’ sempre Gaia a dire “io” in noi. (…) L’io non è mai una funzione o un’attività puramente personale: è una forza tellurica.” ( pp. 24/5).

“Una volta nati non abbiamo più scelta. La nascita rende la metamorfosi un destino. (…) Siamo una manciata di atomi e di corpi che esistevano già, e ai quali abbiamo voluto, potuto e dovuto imporre una nuova direzione, un nuovo destino, una nuova forma di vita.” (p.41)

L’individualità, è un “processo duplice, condiviso tra l’io e il mondo” (p16); così che costituisce un “rapporto di gemellarità con tutti gli esseri viventi” (p27) , gemellarità “cosmica”, in quanto non di somiglianza o affinità si tratta, ma della nascita come ci è stata presentata (un po’ drammaticamente): prendere il corpo di un altro e farne la propria carne. C’è di più della scomparsa dell’io come siamo abituati a considerarlo – individualità psichica e morale o irripetibile particolarità caratteriale, comportamentale, formale – perché qui l’individuo diventa casuale manifestazione aggregativa di qualcosa che pre-esiste  come l’antico essere parmenideo o platonico o divino. Non importa che Coccia ci avverta che la natura non è essenza: le maiuscole del Sole, della Terra, di Gaia, mostrano una maternità che assomiglia molto alla discendenza metafisica. Oppure sembra di tornare ad una sorta di soggezione magica agli elementi naturali come nell’ancestrale animismo. In una matericità dura e deterministica come quel mondo-orologio che tanto piaceva ai fisici settecenteschi. La quantità di declinazioni del verbo ‘dovere’ e del suo concetto aprono addirittura ad un fatalismo aprioristico. A un determinismo del caso. Con un malcelato finalismo di fondo. “Deriva”, quindi, è non a caso un termine che compare spesso per dare nome al movimento della metamorfosi. C’è un capitolo che si intitola La metamorfosi come destino. 

Poi ecco comparire di colpo una di quelle metafore spiazzanti ed indefinite:

 “l’io non è una sostanza, non è una struttura personale, ma una musica interiore che continua a invadere le menti, a colonizzare i corpi, senza poter mai essere adottata una volta per tutte dall’uno o dall’altro corpo. Ogni idea è un io itinerante, proprio come l’atomo di Leopold. [Aldo Leopold, L’almanacco di una contea di sabbia n.d.r.] (p.108)

L’indefinitezza della metafora “musica” trascina in una sospensione che cela un pesante vuoto. Dove sia l’interiorità che la mente appaiono come alieni appena atterrati nel piazzale del Vaticano, consimili a quei ‘sé stessi’ protagonisti della questione a cui Coccia ha accennato poche pagine prima e che ha poi lasciata in sospeso: “Resta da vedere come conservare almeno un po’ di sé stessi, come non distruggersi nel processo.” (p.86). Forse la risposta sta in affermazioni come questa che appaiono come i  misteriosi conigli estratti dal cilindro del prestidigitatore:

“Ogni specie è protagonista consapevole, capace non solo di commettere errori e fare scelte sbagliate, ma anche di comportarsi in maniera arbitraria, muovendosi in una direzione che non necessariamente è quella migliore e più utile per sé.” (p.159)

Oppure in quei  pochi accenni,  che io trovo monchi o apodittici o improvvisati come apparizioni larvali, come ad esempio nell’affermazione: “la rivendicazione di essere “diversi e superiori alle altre creature”, di essere fatti “di materia mentale” ci ha portato a provocare l’estinzione di tutti i grandi predatori” (p.101/2). C’è qui una pesante petizione di principio laddove si coniuga alla giusta denuncia di un errato comportamento ideologicamente motivato, la funzione umana della mente tout court, tanto vuota e neutra, quanto  indefinita nella sua proposizione – a parte il polemico ribaltamento da qualificazione a nominazione sostanziale di “materia”, che afferma aprioristicamente l’essenza di “mente”. E ancora: “Ogni io veicola lo spirito degli altri: le loro idee, il loro respiro, il loro passato.” (p.108). Qui veleggia una domanda:  se ci sarà stato allora un primo pensiero, una prima idea, da dove mai sarà scaturito, tra-passato? Da questo “spirito” che compare qua e là indefinito e non si sa bene cosa sia? E’ vero che, quasi alla fine, Coccia, come suo solito, ci sorprende di colpo: 

“se lo spirito è fatto di atomi, tessuti e molecole, [ma quando come, questo tipo di ‘spirito’ è stato, in questo contesto, se non argomentato, almeno affermato e definito con parole più distese?, in fondo si tratta di una delle questioni più dibattute nella storia del pensiero!] allora lo spirito si trova dappertutto, in ogni specie vivente. La biologia è quindi una fenomenologia dello spirito cosmico.” (p.159)

Una dialettica eccezionale che coniuga – mi pare –  materialismo e idealismo ottocentesco! Ma la vera sorpresa è successiva: “Ogni specie vivente intrattiene dunque un rapporto estetico con il mondo circostante.”  Coccia apre all’arte. Argomenta  che Darwin stesso vide come tanta bellezza e varietà e originalità di molte forme morfologiche (a volte, infatti, più ingombranti che utili) non era giustificabile con la selezione naturale. Coccia è convinto che si tratti dell’“espressione di un gusto, di una sorta di volontà artistica”, di una ben definita preferenza; quindi se il “giudizio di gusto” è arbitrario, la selezione non si sviluppa per ragioni utilitaristiche, ma per scelta, e soprattutto da parte di esseri viventi femminili. Coccia dice che questo intende Darwin quando parla di “selezione sessuale” in The Descent of Man (pp.159/60). Con l’arte ed il gusto estetico è ricomparsa la ‘volontà’, la scelta.  

      Coccia propone anche una sua interessante concezione della tecnica. Non si tratta di una estroflessione degli organi interni che, secondo Ernst Kapp, permetterebbe di superare i limiti del corpo umano, fino a fare del mondo intero una propria estensione. Questa concezione escluderebbe gli altri esseri viventi. La manipolazione del mondo, invece, secondo Coccia, 

“permette di disfarsi della propria natura, di modificarla dall’interno e di non proiettarla all’esterno. (…) Dovremmo imparare a vedere in ogni oggetto tecnico un bozzolo che permette questa trasmutazione: un computer, un telefono, un martello, una bottiglia non sono semplici estensioni del corpo umano, ma manipolazioni del mondo che rendono possibile un cambiamento dell’identità personale, se non sul piano anatomico, quanto meno sul piano etologico. (…) Più che una forza che si contrappone alla vita o che la prolungherebbe dall’esterno, ne è la sua espressione più intima, il suo dinamismo originario.” (p.77) 

Mi chiedo che posto e ruolo può avere in tale contesto quella manipolazione del mondo e di noi stessi che chiamiamo ‘antropocene’.

     C’è poi una complessa trattazione della generazione, della nascita,  che  mostra vari punti necessitanti di grande attenzione. Coccia comincia con un’affermazione che farebbe felice qualsiasi femminista: siccome la cultura dominante maschile “non ha mai fatto l’esperienza di mettere al mondo” (p.29), si spiega l’ossessiva presenza della paura della morte e dell’invecchiamento nelle nostre società, mentre per la concezione metamorfica si tratta solo della continuità della vita in altre forme. Si sofferma poi soggettivamente sull’esperienza  – ancora schiettamente fisica – di una donna incinta, dove, incredibilmente, l’esperienza del generare un altro corpo dal proprio è la vera antitesi alla nascita:

Vedere il proprio corpo trasformato in una matrice attraversata da una vita che non ha più nulla di personale o di individuale, perché transita e si trasmette da un individuo all’altro (…) Vedere il proprio corpo sdoppiarsi, una forma dopo l’altra, un organo dopo l’altro (…) trasformarsi in un mare in cui la vita migra di io in io (…) Questo secondo corpo che una madre fa nascere (…) è allo stesso tempo un corpo straniero, un alieno e un corpo gemello. (…)Per nove mesi madre e figlio sono coestensivi [notare il termine: non coesistenti, nella stessa esperienza vitale: solo nello stesso spazio materico]: due esseri, due soggetti (anche sotto l’aspetto giuridico), due vite i cui corpi coincidono nella res extensa, occupano lo stesso spazio, sono costituiti dagli stessi atomi, sono una sola e medesima carne che non appartiene a nessuno dei due in maniera esclusiva.” (pp.29/30) 

Poi questa vita passa a un corpo-individuo che non avrà più niente “in comune” (“malattie, gusti, esperienze, opinioni, morte” (p.30 ) col corpo che l’ha generato e da cui si è reso autonomo.  Ed ecco che femministe o non che siano, le donne si mettono a urlare. Perché un tale annichilimento dell’esperienza della maternità era dai testi di Aristotele e dei manuali dell’Inquisizione che non si sentiva in giro. In qualche romanzo di fantascienza in effetti ancora si immaginano coltivazioni di donne-utero-matrici ridotte a compiere il loro destino di vasche contenitrici immobili del mobilissimo e vitale seme maschile che si limita, “straniero”, a “transitare” nell’utero. Cancellata del tutto quella mielosa faccenda del rapporto simbiotico madre-feto (il quale tanto sorprende ancora gli studiosi per il suo molteplice dispiegarsi), mentre fa capolino l’affermazione dell’esistenza giuridica del feto, tanto dibattuta ancora nella attualissima questione dell’aborto, appannaggio di differenti concezioni del mondo che intersecano un rovente ambito etico e morale. Di cui non c’è cenno in questo saggio. La spiegazione, forse, di una tale posizione fa capolino in un’affermazione che non ci aspettavamo qui, dopo che per millenni l’abbiamo  dovuta sopportare da una cultura patriarcale che ne ha fatto uso per togliere alle donne l’ultimo loro carattere distintivo potente:

“l’esperienza della maternità non è limitata a un solo genere e non ha un legame esclusivo col femminile: è la nascita a definire la madre, non il contrario. La maternità non è né un destino né un’essenza né una determinazione di genere, bensì il risultato di ciò che la nascita fa a certi corpi.” (p.33)

Essere madre è una funzione e basta. Che storpia un po’ il corpo della donna. Sembrano frasi del Malleus maleficarum. 

Riprendendo Sàndor  Ferenczi, e la sua proposta di identità simbolica tra ventre materno, oceano e terra da una parte e dall’altra tra pene, bambino, pesce, Coccia afferma  che “La maternità è un fatto cosmico: “la madre è in realtà un simbolo e un sostituto parziale dell’oceano e non il contrario”. La maternità è sempre una funzione geologica e planetaria” (p.40). Ecco: simbolo e funzione; dopo tanta carne, infine la totale disincarnazione della donna madre. Trasferire il simbolico dall’ambito della psicoanalisi, con un semplice riporto di frase, a questo ambito di riflessione che spazia dalla filosofia alla fisica e finanche alla meta-fisica e alla sociologia  è una pericolosa operazione. Personalmente non posso non allargare il senso di ventre-oceano-terra a quello aristotelico di utero-contenitore passivo e il pene-pesciolino a quello del dinamico seme maschile. 

     L’autore arriva a criticare la concezione religiosa della generazione di Gesù, vedendola non come un’elaborazione storico-ideologica dottrinale (magari necessaria a una religione che si sovrapponeva anche prepotentemente ad un’altra fede che s’incentrava sulla Dea della Maternità stessa, diffusissima sotto nomi diversi e antichissima sotto sembianze canoniche (Cibele, Demetra, Iside, ecc.)), ma come la deviazione del fenomeno della nascita dalla natura stessa, per cui la 

“natività ha ridotto la nascita a una questione puramente femminile: la femmina avrebbe la capacità di dare la vita ignorando il maschio (nesciens virum) e senza il seme maschile (non  ex semine viri). Tutto il lavoro [sic!] spetta dunque esclusivamente alla donna.[ecco il punto!]. La natività divina (…) è senza peccato, priva di dolore [dove sta scritto nei vangeli?], libera da desiderio, dalla mescolanza e dalla metamorfosi. A poco a poco, questo evento straordinario si è secolarizzato ed è diventato, per estensione, la nascita umana. (…) Hanna Arendt (…) ha trasformato la nascita nell’evento umano e antropogenetico per eccellenza.” (p.35)  

A parte le inesattezze dottrinali, è assolutamente assurdo fare della natività una qualche forma di idealizzazione femminista, non fosse che per il fatto che al posto di quel vir umano c’è stato da subito messo il Dio cattolico delle origini, non solo maschio, ma sublimazione del maschio. La Madonna nella pittura, nella dottrina, nella musica, è raramente presentata per sé stessa, sempre affiancata da un angelo annunciatore, o sostenente in grembo un cadavere di figlio, o con in braccio un bambino in genere più intento a benedire il mondo che a godere della madre.  Certo è una figura che molto è servita per sostituire la Grande Madre e certamente è molto cara al sentire delle donne, ma affermare che la natività  si è secolarizzata fino a identificarsi nella nascita comune è proprio un’esagerazione: non fosse che per l’ospedalizzazione che tale esperienza subisce nel nostro tempo. Esagerazione anche se il timore dell’autore fosse solo quello di un “carnevale teologico”, per cui “ogni nascita è una forma di divinizzazione, di trasmissione della sostanza divina” perché, se Dio “partecipa della nascita”, allora si incarnerà attraverso ogni nascita in ogni cosa: “un bue, una quercia, una formica, un batterio, un virus.” (p.36). Be’?! Dove sarebbe il dramma? In un saggio che parla di sacrosanto intreccio costante di corpi dei tre ordini, non  dovrebbe fare scandalo un dio che si incarnasse tanto in un uomo quanto in un bue o un virus. Tante teologhe e teologi si avvicinano a questo “carnevale”, con entusiasmo e palpitazione amorosa. Una bellissima metafora di McForgue è quella  dell’ “universo come corpo di Dio”, perché “Dio non è in un altro mondo”, è “insieme presente in tutto ciò che è”, dice Tomassone, e insieme fa posto, lascia spazio a ciò che è altro da sé. A me sembra che in parallelo al bisogno di riscoprire l’interconnessione, l’interdipendenza tra ogni essente dell’universo, sia non solo comprensibile, ma necessario lasciarsi andare a una figura divina insieme a cui o tramite cui sentire la condivisione con l’intero creato. Magari fino a identificare creato e creatore.

  Un altro punto mi interessa sottolineare nella riflessione di Coccia: 

“ Questo carattere non essenziale della nascita si manifesta chiaramente nel parto. Occorre un travaglio per diventare madre (…)La nascita apre sempre uno spazio tecnico, un luogo in cui lavoro e immaginazione, forza e coscienza, sforzo psichico e sforzo fisico devono unirsi (…) dovremmo cominciare a vedere in quella che chiamiamo tecnica innanzitutto una variazione di ciò che avviene nella maternità. E’ perché gli esseri viventi sono capaci di generare (…) che siamo in grado di plasmare il mondo, di trasformarlo (…) E’ la nascita, il lavoro di mediazione tra una forma e l’altra nelle quali si incarna la vita, a rendere possibile qualsiasi manipolazione tecnica. (p.33)

Travaglio, parto, tutto ridotto a semplice matrice della tecnica, la quale è tout court positiva in quanto manipolare il mondo significa comunque partecipare all’unica realtà della metamorfosi. 

     Ultimo tema che voglio toccare è quello della nostra vita che “non può limitarsi a un’unica identità anatomica” (p.83), a un solo ambiente, perché “non c’è differenza tra la casa e l’ambiente”:  non in quanto noi abitiamo l’ambiente, ma in quanto “la vita trasforma costantemente lo spazio nel quale essa si dispiega” (p.83). Un ambiente non è uno spazio a cui adattarsi, ma 

“un laboratorio in cui si reinventano, sin dal principio, geometria e forma. Esso è forma e paradigma della coscienza di sé (…) [la quale] non è il luogo in cui l’essere vivente si ritrova (…) e coincide con sé stesso. E’ lo spazio in cui ciascuno di noi è sottomesso a forze che lo trasformano irrimediabilmente (…)Le idee, le opinioni, le sensazioni – poco importa che vengano dall’esterno o dal nostro stesso corpo – sono forze che ci trasformano” (p.84). 

La casa significa limite, confine, con il quale separiamo ciò che ci è “prossimo” – simile, utile, conosciuto – dal resto. “Grazie alla casa esiste un io e un tu”. E’ il luogo della protezione naturale. Un diritto naturale. Coccia la definisce l’“ossessione” su cui strutturiamo il rapporto tra i viventi e con lo spazio circostante. Pure l’ecologia, per lui, si è formata su questa concezione. Nata come “teoria delle società non umane”, vuole provare che 

“tutto nel mondo non umano si struttura in modo identico all’unità sociale domestica degli umani. (…) Ognuno a casa propria, e lì deve restare fino alla morte. Chi esce di casa (cioè dal proprio ecosistema) invade un territorio straniero o rompe un equilibrio. (…)lo spazio è definito dalle leggi della proprietà e della pulizia. (…) è stata una delle più efficaci agenzie di antropizzazione del mondo e di umanizzazione del non-umano.”. [Per cui il mondo è ]“un’estensione infinita di piccoli giardini, in cui ogni forma di vita coltiva il proprio spazio e rispetta di buon grado i confini” (pp.133-7).

Quindi “pensare il pianeta (…) ecologicamente significa negare realtà a ogni forma di politica terrestre”; vi si connette perfettamente secondo Coccia la teoria darwiniana, che fa derivare le mutazioni non da “equilibri puramente chimici o geologici”, ma da precisi elementi sociali come “l’antagonismo e la guerra”. In tal modo la guerra “di tutti contro tutti” diventa sotto sotto una necessaria “utilità globale” (p.143). 

Contro questo agisce la metamorfosi. Perché viene da dottrine sacrogiuridiche e razziste umane la violenza di definire specie animali e vegetali “invasive” di un territorio. Ecco allora che la metamorfosi libera i viventi da questi limiti: infatti gli “esseri viventi non abitano questo o quel territorio”, “non si limitano ad abitare Gaia, ma la portano nelle loro viscere, se la portano dietro ovunque vadano.” (p.147) Allora “qualsivoglia scienza politica – in quanto disciplina della monocultura umana – è radicalmente compromessa e va abbandonata. Un sapere puramente umano è impossibile perché ogni vita è (…) interspecifica. La scienza dei viventi non può che essere un sapere dell’interspecificità.” (pp.153/4). Cioè? 

     Ed ecco che, del tutto inaspettatamente, sorge una “mente” in qualche modo interspeciale, perché la mente non è un organo, “esiste all’esterno del corpo (…) nella relazione che il nostro corpo stabilisce con molti altri corpi.” (p.162) L’intelligenza è interspecifica: Coccia fa l’esempio dei grandi predatori carnivori, i quali, senza gli erbivori, “sarebbero stati assolutamente stupidi” (p.163). Anche la coscienza, l’intelligenza, il ‘cervello’ non sono naturali, ma frutto di relazione interspecifica; sono “un fatto tecnico e, in una certa misura, artistico”. Sorprendente, eccezionale coniglio che spunta dal cilindro!  Ogni rapporto tra specie è come quello dell’artista con la materia con cui fa arte: 

“Le decisioni degli insetti riguardo a quale fiore deve accoppiarsi con quali altri fiori, non si basano su un calcolo razionale ma sul gusto: tutto sta nella quantità di zucchero contenuta nel fiore. (…) in natura (…) tutto è artificiale e arbitrario. (…) La storia della Terra è una storia dell’arte” (p.165). 

L’arte, quindi, che secondo Coccia dal XX secolo si è liberata dalla funzione “di produrre bellezza”, è diventata un mezzo per produrre “qualcosa che ancora non esiste”, una diversità da ciò che è, una conoscenza differente, “desiderio e progetto di metamorfosi di una società” (p.167). Nel capitolo finale, dice che l’umanità “ha potuto e potrà comprendere sé stessa sempre a partire dall’osservazione del non-umano” (p.173). Lui stesso si rende conto della coincidenza di questa prospettiva con l’antropizzazione denunciata prima, ma argomenta che  il  riconoscimento tra specie umana e non-umana di tratti simili spiega come l’umanità può arrivare a conoscersi solo con un’osservazione interspecifica. Inoltre l’antromorfismo è comunque onnipresente, ineliminabile, dai concetti al linguaggio, alle metodologie di osservazione. Allora, piuttosto che mentire ipocritamente è meglio ammetterlo, anzi “andare fino in fondo”  e accettare 

“che c’è una psicologia prima ancora del cervello e dell’organismo: ogni molecola organica adora sé stessa ed è un po’ narcisista. Ammettere l’antromorfismo significherebbe dire che l’unico registro per parlare del mondo è quello della favola.” (p. 175)

In fondo non si tratta di allungare l’ombra umana sul resto del mondo, quanto di “contaminarla con una miriade di altre forme di vita.” (p.175), mentre vietare l’antromorfismo potrebbe essere letto come il rifiuto di abbassare l’umano a paralleli inferiori. 

     Il saggio termina con un inno al futuro:

“pura forza della metamorfosi (…) malattia dell’eternità. Un tumore di per sé, ma più benigno. L’unico che ci rende felici. (…) Non abbiamo bisogno di vaccinarci contro il virus del tempo. Sarebbe inutile. La nostra carne non smetterà mai di cambiare. Dobbiamo ammalarci, ammalarci gravemente. E non aver paura di morire. Noi siamo il futuro. Viviamo in fretta. Moriamo spesso.” (p.179)

Ma un fantasma continua ad aggirarsi per il saggio: quale futuro? Nessuna parola è stata spesa per l’attuale crisi globale, fino a far pensare che forse a Coccia non interessa quel “quale” connesso a domanda al futuro. Se “dobbiamo ammalarci“ e “gravemente”! Qualsiasi cosa voglia significare.

TAG antropocene    ecologia    interdipendenza  metamorfosi   arte     

    

    

Infine una affermazione attraverso una “metafora” di Mc Fague, che certamente ha provocato e provoca reazioni forti, per una certa contiguità con la concezione che genericamente va sotto il titolo di panismo: “l’universo come corpo di Dio”.

la proposta di Mc Fague di un Dio che “non è in un altro mondo”, che anzi è partecipe nella ricerca del bene di questa realtà terrena, un Dio che non è onnipotente, in quanto “svuota se stesso”, si fa kenotico, per lasciare posto al mondo: non solo facendo sì che esista come altro-da-lui, ma dandogli anche la libertà. Un’ “immanenza trascendente”, la chiama Tomassone: “essere insieme presente in tutto ciò che è” e “fare spazio positivamente a ciò che è altro” (Ivi, p.107). Ma questa “relazionalità radicale di Dio col mondo”, io credo che non possa divenire che l’essere Dio lo stesso mondo, in una concezione di incompiutezza della creazione, del bene soprattutto, alla cui opera – se il compimento, la perfezione, il finito del bene, è troppo difficile per me da pensare – l’uomo è chiamato, nel suo esserne parte come creato e insieme, allora, come creatore.

Questo “consumo del pianeta”, riprendendo Rosi Braidotti, Tomassone lo inquadra in una concezione della morte che non è sentita 

“come un confine, ma come una trasformazione della materia in cui non c’è più un sé autonomo e indipendente dalle reti di relazioni materiali fra corpi e si va a un superamento della materia. Questo significa anche accettare che la fecondità della vita porti a cancellare il sé. (…) Da un lato bios, la vita compresa culturalmente, cioè spiegata attraverso la cultura; dall’altro zoe, la vita degli esseri animati e inanimati: la vita delle pietre, degli alberi, quindi la forza vitale che risiede nella creazione. Zoe è una forza trascendente da cui bisogna farsi portare, perché qui stanno la forza e il segreto per costruire un mondo diverso, un senso più grande di sé, che renda partecipi e non dominanti o accentratori.” (Ivi, p.57) 

Sento forte l’invito che Tomassone, riprendendo Mc Fague, ci rivolge:

“mettersi in dialogo con la scienza contemporanea” (la quale ha individuato nell’“infinito e continuo aggregarsi” di microparticelle, la “realtà caratterizzata da continuità, interrelazione e trasformazione dinamica dei diversi stati della materia” (Ivi, p. 106)

Please follow and like us: