LA POESIA DI ADRIANA ZARRI di Anna Maria Farabbi

Adriana Zarri (1919/2010) è una di quelle maestre che dimora nel mio cono di luce. Anche dentro la mia ombra interiore.  

Ogni suo lavoro scrittorio, narrativo, saggistico, meditativo, ogni suo commento politico, ogni sua presenza nel dibattito socio politico culturale è stata una chiamata forte per me: mi ha insegnato a camminare con il corpo e con la parola in una stessa corporeità, onesta, frontale, libera, in una tensione anarchica che risponde sempre passionalmente con rigore e interezza.

L’uscita dell’opera poetica di Zarri mi permette, ancora una volta, di nutrirmi della sua ricerca ma anche di riqualificare la sostanza di certa poesia. Zarri come Aldo Capitini, cito un altro maestro che ara la mia vita, ha usato vari strumenti espressivi scrittori, vari registri, oltre alla limpidità leggibile della propria vita vocata alla distruzione di un potere grasso, autoritario, anestetizzante così come di fortificare la consapevolezza autocritica di ogni singola persona. Zarri come Capitini sfociano in poesia il loro fare, la loro prassi, la tensione mistica e quella intellettuale. Il canto contiene tutto, compreso il proprio io, e si offre al mondo in un filo di essenziale esattezza tra significante e significato.

La spiritualità di entrambi, pur nelle precipue differenze, si radicalizza, oltre alla permanente formazione tra studio e ricerca, nel fare politica. Politica nell’accezione forte di credere nella polis, nel plurale, come atto di eredità e responsabilità. Aggiungo: in compresenza tra vivi e morti, tutti indistintamente in tutto, minerale vegetale animale che sia.

Per questo li chiamo maestri. Per questo sono nutrimento.

Lindau, pochi mesi fa, ha pubblicato l’opera poetica di Zarri con il titolo “Tu” Quasi preghiere, a cura di Francesco Occhetto che ne firma l’introduzione. La stessa casa editrice aveva editato nel 2014 in nuova edizione Il pozzo di Giacobbe. Raccolta di preghiere di tutte le fedi.

Conoscevamo molte delle poesie di Zarri. Qui si stende tutta la sua opera poetica nell’architettura dei suoi ritmi e dei suoi nuclei tematici. Da un punto di vista stilistico, la chiarezza della parola nel verso, una diretta, quasi colloquiale, tensione lirica a volte leggermente sostenuta dal simbolo, sempre vibrata da un tono fiducioso di prossimità espressivo/comunicativa.  Non ho mai letto nei saggi centrati su questa eremita laica e teologa riflessioni sul suo lavoro di traduttrice, in particolare in quello dell’opera diaristica di Marie Noël. Lo considero una mancanza notevole, perché toglie un’importante connessione al suo ritratto.   Pur con una personalità diversa, Marie Noël tesse la propria mistica in vari registri scrittori: la prosa diaristica, la prosa narrativa, la poesia. 

La poesia è il filo linguistico e spirituale, essenziale, spogliato, nudissimo dentro cui la propria ricerca interiore e artistica coincidono sulla soglia del tacere.

Come una prefazione apre “Tu” Quasi Preghiere: è l’introduzione di Zarri. Qui si esplicita la sua postura mistica nuziale e non penitenziale che la distingue, così come il significato che lei dà al distacco privo di ogni mortificazione ma interazione totalizzante con il sacro. 

Le varie sillogi interne hanno titoli annuncianti. Ballate dell’ira scoperchia la nettezza senza compromessi di Zarri, che tanto le causò l’irrimediabile allontanamento dai vertici e dai centri clericali del potere cattolico. Non c’è minima accettazione, né tolleranza nei confronti di una corruzione che  cor/rompe l’interezza del sacro. Il furore innamorato spacca e denuncia.

Piazza San Pietro

 

Piazza San Pietro,

bella, di notte, con le quiete fontane,

provinciale,

nel mezzogiorno di domenica,

con i turisti papalini.

 

La corte vaticana

intesse arazzi

di frasi pontificie;

e la cristianità li appende alle pareti,

come i motti del duce

che si scrivevano sui muri.

E lui,

-Murato in alto, in una gabbia bianca –

a leggere statistiche bugiarde

e documentazioni adulterate.

E noi

-raccolti in basso in un ovile grigio –

a dirgli le menzogne cortigiane.

 

Mandagli giù uno specchio

e una visione

del primo Pietro pescatore.

Ti camminava a fianco, 

senza parlare, e quando gli affidasti i tuoi agnelli

quasi piangeva

perché non era certo del suo amore.

E quando restò solo con i dodici

Si trovò in imbarazzo.

Non aveva ancora l’aria del capo,

non aveva ancora la curia

e i cardinali.

Era un semplice e povero brav’uomo

che si grattava la testa

e si turbava, la sera,

se il crepuscolo

si colorava di viola:

vedeva ancora i piedi lividi

che avevano confitti sulla croce.

Non aveva ancora la sedia gestatoria,

non aveva gli svizzeri lustrati 

con le alabarde luccicanti,

sugli steli dell’asta, come lune,

ma soltanto la luna del cielo

che si specchiava sul suo lago.

 

Piazza San Pietro

provinciale, 

nel mezzogiorno di domenica,

bella di notte, con le quiete fontane.

 

Vorrei rilevare quanto Zarri cancelli ogni cedimento aulico e retorico, o sentimentaleggiante, e elimini le maglie del simbolico: proprio tutte le componenti tradizionali della poesia mistica e religiosa. Così, in intensità opposta, raggiunge volutamente un livello di chiarezza perfino comunicativa per toccare la piaga della chiesa abbarbicata nell’apparenza e nella gestione organizzata del potere. 

La ricordiamo nella sua forza espressiva durante la trasmissione Samarcanda diretta da Michele Santoro: il suo furore innamorato diretto, senza mediazione. 

 

Manda giù un angelo!

 

Manda giù un angelo, Signore,

di quelli antichi,

con le saette in mano,

fallo volare verso Roma,

nella Città del Vaticano.

 

Liscerà le sue ali di sole

e leverà le frecce,

una per una,

dalla faretra di luna.

E punterà la prima al terzo piano,

ma poi

si arresterà al ricordo di Giovanni

dal viso tondo come la luna di piena,

dalla voce pastosa come pane;

si fermerà al ricordo 

del primo Pietro pescatore, quando gettava le reti

in nome di nostro Signore.

Ma la seconda volerà diritta

verso la piazza dei Cavalleggeri

e la terza

dietro alle mura dell’Osservatore

a bruciare la carta cortigiana.

Manda giù un giustiziere

a far salire le guardie papaline,

le nunziature, i diplomatici in divisa;

ma fermalo davanti al monsignore

che si vergogna della mitria

e non ha colpa dell’anello

che gli hanno messo nelle dita.

Lo troverà fuori di mano, le spalle umiliate,

il viso smunto;

e lo solleverà

con la carezza dell’ala, appena sfiorata sulla pelle.

Ma poi tirerà fuori un’altra freccia

dalla faretra di stelle. 

 

Manda giù un angelo, Signore,

di quelli antichi,

con le saette in mano!

 

Qui, lavora in termini opposti. Utilizza ironicamente il simbolico, rasentando l’immagine fumettistica, per sancire la necessità di un’adesione totale alla concentrazione spirituale, priva di ogni seduzione autoreferenziale, materialistica, consumistica.

Estraggo come ultima lettura una poesia preghiera che entra nel significato totale della postura spirituale: 

 

Pregare non è dire preghiere:

pregare è rotolare

nel buio della tua luce,

e lasciarci raccogliere,

e lasciarci parlare

e lasciarci tacere

da te.

 

Pregare sei tu che preghi,

tu che respiri,

tu che mi ami:

e io mi lascio amare

da te.

 

Pregare è un prato d’erba,

e tu ci passi sopra.

   

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