“SULL’IMPROVVISO”: ALFREDO RIENZI E LA SOGLIA CRITICA di Paolo Gera

(immagine di Alessandra Gasparini)

Per tutta la vita ci cauteliamo che gli avvenimenti di cui siamo partecipi non superino la soglia critica, fisica e emotiva, costruita faticosamente attraverso le esperienze, il confine personale che difendiamo strenuamente dal pericolo degli agenti esterni. Ma improvvisamente un colpo di coda della sorte, la determinazione imprevista di Ananke, il fato, superiore per gli antichi greci alle stesse gerarchie olimpiche, uno scherzo del destino imprevedibile, scardina la nostra custodia e ci fa prendere impauriti e desolati la testa fra le mani. In poesia la repentinità della crisi è quasi consustanziale all’elaborazione dei versi: se partiamo dai dati biografici di scrittori a diffusione scolastica, il caso più famoso è probabilmente l’assassinio del padre di Giovanni Pascoli, ma una catastrofe universale, la guerra, è all’origine di “Allegria di naufragi” di Giuseppe Ungaretti e la deflagrazione non più controllabile della psicosi dà vita alla creazione di Alda Merini. Per Walter Benjamin lo choc è alla base del procedimento di composizione del padre della poesia moderna, Charles Baudelaire. “In caso di mancato funzionamento della riflessione si determinerebbe lo spavento, lieto o – per lo più sgradevole, che sancisce secondo Freud, il fallimento della difesa contro gli chocs. Questo elemento è stato fissato da Baudelaire in un’immagine cruda. Egli parla di un duello in cui l’artista, prima di soccombere, grida di spavento. Questo duello è il processo stesso della creazione. Baudelaire ha posto quindi l’esperienza dello choc al centro stesso del suo lavoro artistico” (p. 97). Ma Baudelaire, come poi succederà suoi epigoni surrealisti e fra tutti Louis Aragon, attraverso la flânerie e l’immersione nella folla urbana, è alla ricerca costante della provocazione del duello, del colpo imprevisto. Di quello choc, di cui parla Benjamin, Baudelaire è una specie di rabdomante. Lo sguardo che incrocia con una passante vestita di nera è, per la sua anima ipersensibile, dispensatore di estremo sbigottimento e di conseguente deragliamento della coscienza.
Alfredo Rienzi, scrivendo “Sull’improvviso”, si pone su questo versante quando parla nella sua introduzione di “comprensione del lampo”, ma il conato soggettivista che spingeva l’autore de “Les fleurs du mal” quasi a sfidare l’agent provocateur, eredità di un certo titanismo romantico alla Shelley, è immobilizzato in un atteggiamento di stupore e di abbandono agli eventi traumatici: la bacchetta della ricerca è In Rienzi sostituita piuttosto dalla struttura del parafulmine, che raramente protegge però, o da un osservatorio astronomico che riesce ad osservare le stelle sino al loro sesto grado di grandezza. Dopo si entra nella dimensione della inesplicabilità e delle congetture. La ripercussione sui casi umani è deflagrante. Si attende ignari e il colpo quando arriva è terribile.

a S.C. (1997-2007)
A cosa serve un albero?
a dieci anni a una cosa sola:
essere arrampicato
è l’ordine del mondo: radici, tronco, foglie

Ele, il primogenito, ha il suo destino
sul ramo più alto della magnolia

entrerà dall’occipite
il fulmine: mezz’agosto, il cielo
terso aveva taciuto.
(p. 13)

La prima poesia è la nuda descrizione di una disgrazia infantile, perché sempre l’acerbità è direttamente proporzionale alla grandezza dello schianto. La ruota del motore entra nella carne di Johnnie Sayre che non conoscerà, come da epigrafe tombale, il male a venire. Era solo un bambino, si dice. Ma già questo testo è sufficiente a delineare il gusto e il panorama dell’intero libretto: l’imperturbabilità degli elementi naturali e divini di fronte a ogni catastrofe umana. Il carattere numinoso dell’evento improvviso, del fulmine a ciel sereno, evoca i territori mai annebbiati del mito. L’atmosfera in cui si immerge Alfredo Rienzi è la stessa evocata dallo straordinario “Dialoghi con Leucò” di Cesare Pavese. Nel dialogo di Eros e Thanatos si evoca il mito di Iacinto : gli dei si avvicinano ai mortali per noia e non sanno il male che fanno. “Eros: – Te l’ho detto, un capriccio. Il Radioso ha voluto giocare. È disceso tra gli uomini e ha visto Iacinto. (…) Poi quando al signore venne voglia di andarsene, Iacinto lo guardava smarrito. Allora il disco gli piombò fra gli occhi…(p. 62) e più avanti Thanatos per contrappunto: “Ogni loro capriccio è una legge fatale. Per esprimere un fiore distruggono un uomo.” (p. 64). E così scrive mirabilmente Alfredo Rienzi:

Le ultime tre volte
che ho avvistato la morte
indossava insospettate forme:
di bocciolo di rosa
di trasparenze d’acqua
di rondine migrante – verso dove?
(p. 34)

In questa dimensione di incomprensione e di smarrimento rispetto a ciò che sta dietro all’accidente, per gli uomini crudele, per la Natura del tutto trascurabile, si muove la poesia di “Sull’improvviso”. La pietra medita da pietra e non sa della frana colossale e della carneficina che provoca a valle. Nella poesia (p. 15) si parla di Islanda e di Lifsins Fjall, ma il mio ricordo corre indietro a quelle che sono state le prime immagini televisive che io abbia mai visto, quelle che riportavano la rottura della diga del Vajont, su cui i miei familiari piangevano. Solo più tardi avrei capito l’esemplarità di quella catastrofe, al di là delle sempre presenti responsabilità civili. Gli uomini non sono che formichine e tocca spesso loro la sorte di essere spazzate via. Si è insieme nella tragedia oppure si è da soli. Il destino sembra giocare con l’improvvisazione, eppure è un percorso di secoli quello che compie per essere puntuale con chi vuole colpire. Un platano crolla e distrugge chi trova casualmente sotto di sé, oppure le regole del caso tracciano ragnatele che possono imprigionare proprio quella precisa vittima?
nessuno considerò che quell’albero
proprio quello ed esattamente lì
era in attesa da un milione di anni

(UNA MORTE IMPREVISTA – (LA MORTE IMPREVISTA), vv. 13-15, p. 52)

Cesare Pavese cerca di non farsi smarrire dalla regola tutta eccezioni dell’assurdo e dalla macerie accumulate dell’indifferenziato, dalla vendemmia del caos:
“Poesia è ora lo sforzo di afferrare la superstizione – il selvaggio- il nefando- e dargli un nome, cioè conoscerlo, farlo innocuo. Ecco perché l’arte vera è tragica- è uno sforzo. La poesia partecipa di ogni cosa proibita della coscienza-ebbrezza, amore-passione, peccato – ma tutto riscatta con la sua esigenza contemplativa, cioè conoscitiva.”
(Il mestiere di vivere, 2 settembre 1944)
Alfredo Rienzi pone sicuramente il piede su questo illustre trampolino interpretativo , ma tenta il balzo verso una diversa dimensione della possibilità poetica.
“La poesia si fa quindi strumento ulteriore, tenta il superamento dell’occhio-ragione, rischiando di tangere l’immaginifico e il fantastico per attingere all’intuizione”(p. 8)
Il risultato espressivo di questo tentativo è una continua messa a fuoco della lente telescopica che a volte raggiunge risultati di chiarezza semantica consolidata, ma a volte la materia stellare è solo intravista e risulta alla lettura enigmatica, misterica. La serie dei componimenti ha maggiore o minore nitidezza, come si passasse all’improvviso da un buio assoluto a un lampo di comprensione. Si ha un nome dimenticato sulla punta della lingua, si prova con tentativi di approssimazione e poi finalmente, quando abbiamo rinunciato, la definizione esatta compare alla mente in tutto il suo chiarore, così come era all’origine. Abbiamo parlato per metafora di procedimento astronomico, ma caro è a Rienzi anche il tenace lavoro alchemico, alla ricerca di un homunculus che sappia raddensare in una fissazione i materiali incerti impastati insieme:
qualcuno, qualcosa, (vago,
poco definito, appena
più di un’ombra, premeva con blanda inerzia)
voleva essere, ma si fermò.
(p. 20)

E se nella poesia successiva la materia riesce a trasformarsi in “cristallo, luce, regola eterna” (p. 21), il trionfo dura lo spazio di un attimo e subito succede la rarefazione e la polverizzazione. Questa astrazione è riportabile pietosamente al genere umano: siamo stelle effimere o forse solo filanti, nell’assurdo carnevale che è l’esistenza. Chi può pronunciare la parola definitiva?

I merli e lo poiane forse sanno:
misteriosa, intraducibile attesa.
(p .46)

Questi versi sono posti in alto nella pagina, a dare il senso della distanza fra la domanda terrena e la risposta sapienziale e incomprensibile del cielo e del cosmo.
Rienzi compone la struttura grafica dei versi come seguissero la repentinità della crisi o l’addolcimento della lisi. Ma si trovano componimenti dove i due momenti sono anche formalmente come ricomposti dalla commozione e dove la fine non è un taglio netto di buio, ma prefigura una dimensione ulteriore di beatitudine, uno Spoon River dagli esiti consolatori, una stagione eterna di tepore.

(…)
e quando tu, tornando, hai sussurrato al freddo
che nell’orecchio mi assaliva
       non avere paura
ora puoi di nuovo camminare
e forse volare
l’albero di ciliegio stava fiorendo, perché era dicembre
e là dove mi stavo incamminando
anche a dicembre fioriscono i ciliegi.
( TERZO TEMPO PER IL COMMIATO, p. 33, vv. 8-15)

Alfredo Rienzi conta: uno, due, tre sono i tempi del congedo; pausa di fiato, incavo, forse il quattro e il cinque, per arrivare alla sesta e settima grandezza. “Di sesta e settima grandezza” è appunto il titolo della terza e ultima sezione dell’opera, dove il poeta educa la sua terza vista a cogliere attraverso il lampo dell’intuizione ciò che gli strumenti tecnologici non possono più indagare. Tutti i sensi, anche quelli interiori, devono essere ben svegli e vigili. Eppure, addentrandosi in questa zona, ad alta predisposizione sinestetica, aguzzando l’udito nell’ “attesa degli invisibili”, Rienzi non vola via in immaginazioni ineffabili, ma scivola in una deriva spaziale, in cui la mappatura scientifica è ancora rilevante. Mi ritornano così alla mente le immagini di “2001: odissea nello spazio”, declinate nei versi rienziani: l’astronave entra nell’atmosfera lunare, qualcuno cammina su quel suolo; in una sorta di ritorno alle origini ci si posa su Venere, per poi approdare a un “pianeta dall’esosfera giusta” e incrociare altri satelliti e pianeti remoti; infine si ritorna all’osservazione lunare e a una nuova scansione temporale che prevede l’esperienza della dureé bergsoniana:

Colpevolmente non esaminiamo
mai: la fase della Luna, il tempo
dell’ultima carezza ricevuta
l’ora di fioritura dell’acacia.
(p. 54)

Come nelle scene finali del film il viaggio nel cosmo corrisponde a quello nella memoria e nel subcosciente. Non ha più senso domandarsi se lo sguardo è intro o estroflesso e le stelle di settima grandezza sono i barlumi mesmerici, vaganti nel nostro sconosciuto buio spirituale:

è lì la linea che flette il visibile
al nascosto, e al nero
la ritrosia dei fuochi
(p. 55)

Infine è il silenzio, come un manto di neve o di polvere cosmica, che si deposita sui tentativi della parola, sulla ricerca inesausta di trovare la definizione e di catturare la verità. Da quando è nata la poesia il silenzio, invece di risultare una categoria contrapposta e annullatrice, è il risultato di una riduzione che porta alla ricerca dell’essenzialità delle parole, quel loro sfiorare l’inespresso che pure è riempito da tutte le pullulazioni del mondo e da ogni potenzialità ancora inespressa: è “a condition of complete simplicity/ (costing not less than everything) (T.S.Eliot, Little gidding, V), “una condizione di completa semplicità che costa non meno di ogni cosa”. Ma già Alcmane, millenni prima, aveva alzato un inno notturno ad ogni creatura dormiente, grande o piccola che fosse, alle labbra universali chiuse come occhi. Il silenzio contiene tutto: ciò che è, ciò che è stato e ciò che non è ancora.

C’è nel silenzio ogni voce ogni suono
possibile: il bianco che disfa
nell’iride, molecole-galassie
che ronzano, uova incerte se aprirsi
o indugiare nel loro simbolismo

ci sono nel silenzio
gli elementi al precipitarsi nudi
nei loro mulinelli
i canti di meduse e di sterne

poi l’infinita serie delle favole
quei loro finali mai ascoltati
(p. 64)


Bibliografia:

Alfredo Rienzi, Sull’improvviso, Arcipelago Itaca, Osimo 2021.
Walter Benjamin, Angelus Novus , saggi e frammenti, a cura di Renato Solmi, Einaudi, Torino 2014.
Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, Mondadori, Milano 1978.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, Il Saggiatore, Milano 1982.
Thomas S. Eliot, Quattro quartetti, traduzione di F. Donini, Garzanti, Milano 1976.

Paolo Gera

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