SCRITTURE: da Caio Valerio Catullo, traduzioni di Fabrizio Bregoli

(fotografia di Paolo Gera)

V.

Vivamus mea Lesbia, atque amemus,
rumoresque senum severiorum
omnes unius aestimemus assis!
soles occidere et redire possunt:
nobis cum semel occidit brevis lux,
nox est perpetua una dormienda.

Da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum.
dein, cum milia multa fecerimus,
conturbabimus illa, ne sciamus,
aut ne quis malus invidere possit,
cum tantum sciat esse basiorum.

 

V.

Viviamo, mia Lesbia, e amiamo,

e i pettegolezzi dei vecchi bacchettoni

stimiamoli tutti insieme meno di un centesimo!

Il sole può tramontare e rinascere:

noi, non appena tramonta questa breve luce,

dormiremo un’unica notte interminabile.

Dammi mille baci, poi cento,

poi altri mille, poi ancora cento,

poi ancora altri mille, poi cento ancora.

Poi, quando ne avremo fatte molte migliaia,

perderemo il conto per non saperne il numero

perché nessun invidioso ci getti il malocchio

sapendo che sono nostri tutti questi baci.

 

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VIII.

Miser Catulle. desinas ineptire.
et quod vides perisse perditum ducas.
Fulsere quondam candidi tibi soles
cum ventitabas quo puella ducebat
amata nobis quantum amabitur nulla.
Ibi illa multa cum iocosa fiebant
quae tu volebas nec puella nolebat.
Fulsere vere candidi tibi soles.
Nunc iam illa non vult. Tu quoque impotens noli
nec quae fugit sectare. Nec miser vive
sed obstinata mente perfer, obdura.
Vale puella. Iam Catullus obdurat
nec te requiret, nec rogabit inuitam.
At tu dolebis cum rogaberis nulla.
Scelesta! vae te! quae tibi manet vita?
quis nunc te adibit? cui videberis bella?
quem nunc amabis? cuius esse diceris?
quem basiabis? cui labella mordebis?
At tu Catulle desinatus obdura.

 

VIII.

Povero Catullo, smettila di farneticare

e quanto è perduto consideralo perduto per sempre.

Tempo fa, ci furono per te cieli limpidi

quando seguivi ovunque la tua ragazza

amata più di quanto non lo sarai mai nessuna.

Là ci si divertiva un mondo, si faceva

tutto quanto volevi né la tua ragazza lo negava.

Ci furono davvero per te cieli limpidi.

Ma ora lei non vuole più; pure tu non volerlo

non farle la corte se fugge, non vivere allo sbando

ma ostinatamente resisti, tieni duro.

Addio, ragazza! Ora Catullo tiene duro,

e lei non ti cercherà più, né ti implorerà se non vuoi.

Ma tu, ragazza, ti pentirai quando non ti vorrà più nessuno.

Maledetta, guai a te! Quale vita ti resterà?

Chi ti corteggerà ora? A chi sembrerai bella?

Chi amerai ora? Da chi dirai di essere amata?

Chi bacerai? A chi morderai le labbra?

Ma tu, Catullo, imperterrito tieni duro.

 

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XI.

 

Furi et Aureli comites Catulli,
sive in extremos penetrabit Indos,
litus ut longe resonante Eoa
tunditur unda,

sive in Hyrcanos Arabesve molles,
seu Sagas sagittiferosve Parthos,
sive quae septemgeminus colorat
aequora Nilus,

sive trans altas gradietur Alpes,
Caesaris visens monimenta magni,
Gallicum Rhenum horribile aequor ulti-
mosque Britannos,

omnia haec, quaecumque feret voluntas
caelitum, temptare simul parati,
pauca nuntiate meae puellae
non bona dicta.

Cum suis vivat valeatque moechis,
quos simul complexa tenet trecentos,
nullum amans vere, sed identidem omnium
ilia rumpens;

nec meum respectet, ut ante, amorem,
qui illius culpa cecidit velut prati
ultimi flos, praetereunte postquam
tactus aratro est.

 

 

XI.

 

Furio e Aurelio, compagni di viaggio di Catullo,

sia che lui s’avventuri tra gli sperduti Indi

le spiagge d’oriente che il rimbombo dell’onda

percuote incessante

 

sia che giunga tra gli Ircani o gli Arabi oziosi,

o tra i Sagi o i Parti così abili nell’arco,

o fino alla foce dove con le sue sette bocche

colora i mari il Nilo,

 

sia che lui valichi le altissime Alpi

per ammirare le vestigia di Cesare il Grande,

il Reno Gallico, l’Oceano spaventoso e i remo-

tissimi Britanni,

 

e tutto questo, qualunque sia la volontà

del Cielo, pronti ad affrontarlo sempre insieme;

riferite alla mia ragazza queste minime parole

per niente gentili:

 

che lei se la spassi e se ne stia con i suoi amanti

che tiene avvinghiati a sé in più di trecento

non amando veramente nessuno, ma sfiancando

gli inguini di tutti, senza tregua;

 

né che si aspetti più, come prima, il mio amore

che per colpa sua è caduto come un fiore

ai bordi del prato, dopo che è stato, di colpo,

reciso dall’aratro.

 

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LXX.

Nulli se dicit mulier mea nubere malle
quam mihi, non si se Iuppiter ipse petat.
Dicit: sed mulier cupido quod dicit amanti,
in vento et rapida scribere oportet aqua.

 

 

LXX.

Nessuno dice la mia donna di voler sposare

tranne me, nemmeno se Giove in persona le chiedesse la mano.

Lei lo dice: ma quanto una donna dice a un innamorato

perso conviene scriverlo sull’acqua che scorre e nel vento.

 

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LXXII.

 

Dicebas quondam solum te nosse Catullum,
Lesbia, nec prae me velle tenere Iovem.
dilexi tum te non tantum ut vulgus amicam,
sed pater ut gnatos diligit et generos.
nunc te cognovi: quare etsi impensius uror,
multo mi tamen es vilior et levior.
qui potis est, inquis? quod amantem iniuria talis
cogit amare magis, sed bene velle minus.

 

 

LXXII.

Lesbia, dicevi un tempo di amare soltanto

Catullo, e di non volere neppure Giove al mio posto.

Allora ti ho amata non come si ama un’amica,

ma come un padre vuole bene a figli e generi.

Ora ti conosco davvero: quindi, sebbene arda

più intensamente di allora, mi appari

invece molto più vile e  più insignificante.

Come può essere? chiedi. Perché ingiurie simili obbligano

l’amante a amare più di prima, ma a voler bene di meno.

 

 

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