NOTE DI LETTURA

foto di WildOne da pixabay

Roberto Michilli, La sirena dei mari freddi, Di Felice Edizioni, 2020

La sirena dei mari freddi

Una tessitura calibrata in tensione coinvolgente, capace di mantenere una godibile leggerezza di parola misurata fino all’ultima riga. Nessuna sbavatura. Si muovono pochissimi attori proposti in dialogo, diretto, chiaro. Nessuno di loro scavato e scoperchiato nell’intimità del proprio pensiero, ma portato alla luce per quel che basta per trarre a sé il lettore.
In questa opera narrativa regna la leggerezza, nell’accezione di Italo Calvino in Lezioni americane. Leggerezza nel modo come Michilli pizzica, sfiora, i fili della narr azione, sposta i personaggi e le loro vite sulla punta. In una casa che rappresenta di fatto il mondo, rallentato fin quasi alla sospensione. Il mondo purificato da ogni distrazione, reso colto alla bellezza e all’agio, dentro cui la quiete dell’aria entra giorno per giorno nelle narici della protagonista, nel suo corpo, in un consapevole risveglio sensoriale e identitario, uscendo da sensi di colpa per una maternità mai fino in fondo voluta e forse inconsciamente respinta. Nascendo interiormente per un processo di liberazione e di consapevolezza, verso una lievità del quotidiano tutta da godere e, forse, da musicare. E’ un vecchio, ricco, professore che le consegna, morendo, il testimone aureo e sapienziale.
Non è la trama del breve romanzo che lo qualifica, ma l’asciuttezza di una prosa magistrale che riesce a porgere intensità con parole minime. Il tacere ha un ritmo nel metronomo esistenziale del professore e della sirena dei mari freddi.
Anni di lavoro, in traduzione e saggistica, in tappeti di romanzi, nomino uno tra tutti, Atlante con figure del 2016, hanno maturato una penna che brilla.

Anna Maria Farabbi

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AA. VV., Poeti e aforisti in Finlandia
a cura di Fabrizio Caramagna e Gilberto Gavioli, traduzioni di Antonio Parente e Laura Casati, nota di Paula Loikala, Edizioni del Foglio Clandestino, 2012, ristampa di Dicembre 2020

Secondo una delle curiose teorie eccentriche che spopolano in rete e passano di bocca in bocca, teoria che si aggiunge a altre ben più note come il terrapiattismo, l’esistenza dei rettiliani, etc., la Finlandia non esisterebbe come paese (https://www.corriere.it/tecnologia/cyber-cultura/cards/10-teorie-complotto-piu-famose-web-molise-beatles/finlandia-non-esiste.shtml), ma sarebbe una nazione immaginaria, frutto di una delle tante cospirazioni che ci vedono vittime. Astenendoci da commenti impietosi e ritornando alla realtà, caso mai servisse una prova dell’esistenza della Finlandia, letterariamente parlando (nell’idea che la letteratura sia l’espressione più vera della vitalità di un Paese), credo che questa antologia delle Edizioni del Foglio Clandestino (coraggiosa piccola casa editrice che da anni porta avanti una sua battaglia a favore della poesia libera e di qualità) sia la prova evidente, per dirla all’inglese, o alla Simple Minds, di come la Finlandia sia “alive and kicking”.
L’antologia che raccoglie, nella versione con testo a fronte e traduzione, i maggiori esponenti della poesia e della aforistica finlandese contemporanea del dopoguerra, nomi affermati e autori più giovani, ci offre uno spaccato molto interessante della ricerca poetica in atto in questo paese scandinavo, che sa unire elementi della sua tradizione culturale nordica a influenze che provengono dagli altri paesi europei (spesso dal modernismo inglese e americano, più volte compare anche il nome di Spinoza), ma non solo. Insomma una letteratura tutt’altro che chiusa, anzi aperta al mondo. Largo spazio è riservato all’aforisma, genere molto frequentato in Finlandia e con un buon successo editoriale, superiore all’accoglienza media che riceve in altri paesi, forse perché – si ironizza – i finlandesi sono un popolo di poche parole, più attenti e sensibili al silenzio; gli aforismi antologizzati si concentrano soprattutto sulla sfera sociale e esistenziale, con un tono pungente, irriverente, di denuncia. Leggendo le poesie, centrale è invece il ruolo del paesaggio: si ripetono con evidenza alcune parole chiave come “neve”, “gelo”, “bosco”, “buio”, “rami”, “prati”, “erba” a dimostrare la prevalenza dell’elemento naturale in un paese dove, per larga parte, è rimasto incontaminato, dove la parola si confronta con la distanza, lo spazio aperto, l’orizzonte in cui uomo e cosmo possono entrare in dialogo e in confronto. Se da tutti gli studi demoscopici più riconosciuti pare che la Finlandia sia il paese dove la gente è la più felice al mondo (https://siviaggia.it/notizie/finlandia-paese-piu-felice-mondo-segreto/278512/), entrando in queste poesie emerge una lettura alternativa: il paesaggio non è sempre rassicurante, diventa spazio per accogliere la propria solitudine, il senso del mistero e dell’inattingibile che ci appartiene e che va riscoperto, perché “la poesia è un’eco che si ascolta quando la vita è muta” (Eeva Liisa Manner, Teorema, pag. 77) e la scrittura è lo strumento per riattingere a questo nucleo essenziale: “Carta e penna. L’universo nelle mie mani” (Sami Feiring, pag. 188).
Consigliamo la lettura di questa antologia per avvicinarsi a una poesia che in Italia è ancora poco conosciuta ma sarebbe sbagliato derubricare a “letteratura minore” (a patto che poi il concetto stesso abbia senso); anzi siamo di fronte a una letteratura che, pur aperta alle sollecitazioni della contemporaneità, ha scelto di non abbandonare una sua cifra specifica che la fa quindi unica, vera.

Fabrizio Bregoli

 

Marco Munaro, Le falistre, MC edizioni/Medusa, 2021

Come sempre Munaro scolpisce delicatamente la luce: che sia dell’acquLe falistre - Marco Munaro - Libro - Mondadori Storea, della memoria, della neve, del fuoco, dell’aria, in vento tra le narici, i capelli, i capillari dell’anima.
Il titolo ci porta direttamente al dialetto altopolesano, che Munaro ha respirato dalla madre e significa faville, fiocchi di neve. Ci basta per annunciare quest’opera e la sua identità. Il nucleo più antico, come lo stesso poeta esplicita nelle note, risale al 1983. Le falistre furono quasi tutte scritte tra il 1990 e il 1991, dopo un suo viaggio in Grecia e la composizione di Ionio, testo che apriva una nuova fase della sua ricerca poetica In seguito furono pubblicate in diverse occasioni, alcune rimasero inedite per poi essere ricevute qui nella collana diretta da Pasquale di Palmo per Medusa MC edizioni.
Il dono che ricevo non è solo di un caro amico, mio editore, ma di Marco Munaro coltissimo, fine poeta, saggista, traduttore.
L’opera riempie di luce, fin dal primo passo

La luna è un sasso.
Vespero la fionda.

Lavorata con pregiata pulizia formale. Esatta nel suo affondo incandescente e pur leggero. Il cardine scoperto di questa poesia è la vibrazione epifanica del poeta, che è la postura di accoglienza di chi canta per tutta la vita la vita. La meraviglia dell’impermanenza che si coglie nella costante attenzione dell’ascolto, dell’osservazione, anche nei crampi febbricitanti dell’amore.
Qui, il baricentro ricettivo è sceso raso terra, a uno stadio infantile preadolescenziale, in grado di sentire intensamente e organicamente ogni creatura del quotidiano, con risonanze di mistero. Tutti i registri esistenziali vengono arpeggiati. Tutto è vissuto. Pulsa proprio nell’ apertura epifanica quello stato biologico tensivo di drammaticità che si solleva come il volo di una falistra per un alito d’aria o precipita come una macchia di colore infuocata o gelata.

La gioia è un aeroplanino azzurro
che compie due anni
nel cielo bianco
di un ospedale.

Il libro tipograficamente è bello, curato con una carta corposa, sul cui volto vola una farfalla, arctia caja, disegno acquerellato di Luciano Ragozzino. Quanto mai appropriata la scelta di questo lepidottero con il caratteristico disegno delle ali dai forti contrasti chiari e scuri. la cui rapida apertura mostra un acceso colore rossastro.

Ci vuole un camino altissimo
abbandonato nella campagna assolata
poi una scala ferrata
dentro su nel buio cavo
e tre amici dai capelli di vento.
Soffia, fammi arrivare sulla cima.

Anna Maria Farabbi

 

Camilla Ziglia, Rivelazioni d’acqua, puntoacapo, 2021 (prefazione di Ivan Fedeli)

È sempre una gioia accogliere una nuova autrice, alla sua prima pubblicazione nel mondo della poesia; anche se il nome di Camilla Ziglia ci era ben noto da anni, essendosi saputa mettere in evidenza con numerosi suoi inediti in letture pubbliche, in premi letterari, in anticipazioni su blog. Finalmente sceglie di rompere gli indugi e di offrirci il suo primo lavoro edito, caratterizzato da un’impostazione molto unitaria e coerente, cosa che non sempre accade per le opere prime che, spesso, sono raccolte eterogenee delle prime prove poetiche di un autore. In questo caso, dimostrando una capacità selettiva già molto matura, la Ziglia ci offre testi che sono tutti centrati sul suo luogo dell’anima: il lago, con quell’elemento acquatico che ispira con evidenza il titolo. Lago come mondo intermedio, per dirla con Luciano Erba, fra fiume e mare, e quindi soglia, breccia, spazio di confine e di congiunzione. E qui parliamo soprattutto del lago di Garda, già capace di ispirare autori importanti, dalla classicità (Catullo) passando per D’Annunzio fino ai nostri giorni (Franca Grisoni), non dimenticando Pound con il suo “Studio d’estetica”, con il Dante di Sirmione con tanto di “bella pesca di sardelle” e battuta in dialetto bresciano; e Camilla Ziglia è orgogliosamente legata alle sue origini bresciane, alla sua terra, senza inutili campanilismi ma per naturale spirito di appartenenza.
Queste poesie sono, per voce dell’autrice, rivelazioni: termine a cui però non si deve dare un valore necessariamente orfico o oracolare; la parola rivelazioni va intesa invece come la emersione, soprattutto dagli elementi naturali, che sono molto frequenti in questi versi, di significati ulteriori, brecce verso quell’altrove che è lo spazio della poesia. Le composizioni per lo più brevi, in verso libero, concise e essenziali nella scelta terminologica (vengono omesse le aggettivazioni decorative o superflue, in ciò fedele la Ziglia alla lezione di Pound) sono delle istantanee (“Fotogrammi” era il titolo provvisorio della raccolta) che immortalano l’istante, registrano sulla pagina il mistero di un cosmo di cui siamo parte, ma sempre sfuggendoci la reale ragione per cui vi apparteniamo. Ecco allora che la poesia “come una molle carica / conserva immobile / la verità dell’acqua”, il mistero, “il soffio / impalpabile che lo porta”: silenzio, intuizione, riflessione interiore si scrutano e si combinano in una parola poetica discreta, non invadente, ma in ogni caso capace di scandagliare il fondo, “il ventre nero del lago”, “un’oscurità più limpida / a occhi sgranati”. Poesia che, coerentemente con la formazione classica della Ziglia, non rinuncia a essere canto, ma senza mai cadere nella melopea stucchevole; canto necessitante e necessitato, che sa trovare “il filo del cammino”.
Abbiamo molto apprezzato, fra tutti, questo testo, in cui il riferimento matematico iniziale viene scardinato dalla visione “diagonale” che è giusto rivendicare alla poesia, la sola capace di essere “tutta esposta al vento”, di sfidare preconcetti e pregiudizi e aprire prospettive nuove e autentiche in chi la legge e in chi la scrive:

Chi legge il mondo su assi cartesiani
trascura la diagonale della vela
smarrita nel fileggio,
che sbatte e si ritorce
inarca e si distende
libera

e tutta esposta al vento.

Grazie allora a Camilla Ziglia per questa sua prima prova, di cui attenderemo con piacere gli sviluppi futuri.

Fabrizio Bregoli

Alessio Vailati, Il moto perpetuo dell’acqua, Biblioteca dei Leoni, 2020, prefazione di Paolo Ruffilli

Il moto perpetuo dell'acqua - Alessio Vailati - Libro - Biblioteca dei Leoni - Poesie | IBS

Raramente mi è capitato di imbattermi in un poeta tanto refrattario al mettersi in mostra, a raccontarsi, a usare la scrittura come se di fronte allo specchio l’autore con la sua contingenza sparisse e attraverso la superficie riflettente la sua trasparenza rimandasse soltanto il paesaggio là dietro. La ricerca di Alessio Vailati è sincera e rigorosa e dunque apprezzabile, proprio in questo tempo dove tutto è sovraesposto, eclatante, riferibile all’esaltazione del’io e addirittura alle sue dissociazioni identitarie.
Mi viene in mente l’epigrafe sulla pietra tombale, visitata ogni volta che passo per Roma, di John Keats: “Here lies one whose name was writ in water”, “ Qui giace uno il cui nome fu scritto sull’acqua”.
Acqua.
Tutte le poesie di Alessio Vailati parlano d’acqua e credo che mai come in questo momento tutti noi, almeno concettualmente, se il contatto fisico ci viene impedito dalle restrizioni dell’emergenza, abbiamo bisogno di acqua. Zona azzurra, dunque. L’acqua del mare non teme lockdown per fortuna, scorre liberamente, si frange, si ritira, delimita un confine sacro fra l’individuale e l’immenso, il contingente e l’eterno. Che cosa, insieme al suo elemento naturale, non si riesce a catturare dell’acqua? È un fattore che ricorda la concezione bergsoniana del tempo, non come traiettoria misurabile fisicamente, ma interiore, profonda, variabile come lo sono le onde psichiche, le distonie dell’emozione e della percezione.

E con il tempo è un giorno già lontano
Nella vita indolente naufragata
In un’oscura nuvolaglia urbana,

il tuo sguardo che rifugge e va
nella visione estatica dell’acqua.
(Mare, III, p.15, vv.7-11)

“Il moto perpetuo dell’acqua” è diviso in tre parti, la prima e la seconda in versi, con un intermezzo in prosa fra le due, istmo fra due mari, con tre berevi racconti, anzi quadri, che ancora una volta, invece di raccontare storie, evocano dati simbolici e allegorie: l’eterno femminino, la verità, il silenzio.

“Quel silenzio avvolgeva le pareti. Quel silenzio era potente come il boato del cannone quando viene sparato il primo colpo. Quello stesso silenzio, infine, era in grado di abbattere le pareti che lo contenevano con il devastante impeto dell’acqua quando rompe gli argini.”
(Parole e Silenzi, p.41)

E così anche il lembo di terra creato in questa pausa, viene sommerso, c’è acqua alta, la laguna entra nelle piazze e nelle case a imporre il suo principio di indeterminazione.
L’elemento acquatico si avverte in queste poesie anche a livello intrinseco, formale, stilistico. I versi di Vailati sono lavoratissimi, levigati, erosi, eppure esposti con naturalezza, come certi sassi o legni che si ritrovano abbassando lo sguardo sulla spiaggia e poi si esaminano con stupita tranquillità. L’allitterazione rimanda questa sensazione di sciabordio continuo, dell’onda che arriva per poi ogni volta ritirarsi:

Ma se vi è tregua è proprio quell’istante
Di smemoratezza estiva che acqueta
L’espansione instancabile dell’acqua.
(IV, p. 16, vv.4-6)

Nella prima parte l’annichilimento dell’esperienza biografica è totale: ci si ricorda non per giorni particolari, anniversari, incontri, ma per stagioni. Tra il sole e il mare l’esperienza diventa panica e non si può ricordare che lo stordimento, il vuoto, l’assenza.

Ma il mattino agostano dalle fauci
Cristalline annichilisce il pensiero.
(Spiagge di sabbia, II, vv.8-9)

La parte seconda, dopo l’intermezzo, parrebbe più ricca di spunti biografici perché vengono citati luoghi ben identificabili, ma anche questa, che può essere ipotizzata come un diario di viaggio, rivela subito la sua natura di album di acquarelli e il racconto dell’esperienza lascia subito il passo a quello della visione. Allora vengono in mente i poeti romantici inglesi del golfo…

Si erge una chiostra di mura sopra l’acqua
E a picco vi strapiombano falesie
Dove sbatte e frange con fragore l’onda
E in mille spruzzi la sua voce il mare.
(Portovenere, p.45, vv.1-4)

…o quelli che più avanti, come Ruskin, si stupiranno di fronte alle pietre lucenti di Venezia:

Scorre come un pettine rovesciato
Su crespe chiome muliebri una gondola.
Il tempo sotto la luce dell’arco
Un poco si piega: in gocce ricade
Strozzata la voce dal Canal Grande.
( Tramonto al Rialto, p.55, vv.1-5)

Ma in generale la descrizione non si rilassa nell’estetismo, ma si apre all’angoscia dell’irrilevanza dell’uomo , non solo come individuo, ma anche come genere di fronte alla Natura, in una ricerca di correlativi oggettivi montaliani o di immagini che ricordano l’ amaro sgomento luziano. La musica ambient riecheggia note più profonde e scure, l’en plein air si apre a visioni meno rilassate, dove abita il sublime e la paura.

Accade poi che all’attimo di calma
Incalzi il vento e germini il maroso

E spinga l’equilibrio a un passo dopo
E nell’abisso a un crollo rovinoso.
(Stella Maris, II, p.18, vv.8-9)

Paolo Gera

 

Annamaria Ferramosca, Per segni accessi, Ladolfi Editore, 2021 (prefazione di Maria Grazia Calandrone)

Annamaria Ferramosca ci offre in questo suo nuovo lavoro un insieme di testi che nascono da “memorie, enigmi, brani onirici, accensioni” e aggiunge che “ogni testo mi sembra ora voler intercettare segnali dalla vita, piantati ovunque, fuori da ogni codice, limite, linea di senso, e pure venuti dall’altrove, con il suo incombere a volte luminoso, a volte scuro.” (Nota dell’autrice a pag.11-12). Ne nasce una raccolta estremamente articolata e policentrica in cui la voce dell’autrice, certamente personale e riconoscibile, ci offre una rappresentazione poetica della contemporaneità, appunto, “per segni accessi”, “password per un cammino”, perché “nonostante il silenzio / note indecifrabili mi battono le tempie / mi sorprendono in stupore”, perché la poesia con la sua matrice naturalmente sciamanica e visionaria riesce a dare forma a quell’altrove, a quello spazio cosmico e mitico insieme che è la radice profonda della sostanza che siamo. Leggendo queste poesie si ha la sensazione di un’ispirazione sincera, che nasce per intima necessità, che non ha bisogno di definirsi e costruirsi a tavolino, ma è soprattutto slancio vitale, pulsione a dire, emergenza della parola che, incapace di trattenersi e reprimersi, entra nel polemos della vita, lo indaga: “cerco armi nella voce un canto”, canto come musica (quella a cui l’autrice è visceralmente legata) e come traccia sismica che può mettere in risalto le vibrazioni del cosmo. La poesia diventa davvero, per Annamaria Ferramosca, senza retorica alcuna, “tregua dal disumano”, parola che affratella, che riunisce e congiunge tutte le forme biologiche (e l’autrice è biologa come formazione culturale) in un’unità di fondo che ci richiama con forza al rispetto di tutte le manifestazioni viventi, “fogliepietreanimali” (il ricorso a questi termini polifusi, così originali e pregnanti, è un marchio distintivo della Ferramosca che ne fa largo uso in questo e nei precedenti suoi lavori; riportiamo alcuni esempi significativi da questo ultimo: domandepietre, polveresilenzio, nascitamistero, delusetristi, chiareferoci, feritaluce, uomodonnauomodonnauomo).
La parola della Ferramosca è denuncia del degrado, del tempo del diluvio che viviamo, della rovina verso cui l’uomo inesorabilmente e scientemente sta conducendo sé stesso con la lunga sequela dei suoi errori e dei suoi egoismi antropocentrici; questa denuncia assume toni forti, apocalittici si direbbe, come in questo passaggio emblematico: “lo spin ha invertito il suo giro / matte spirali innescate / ribaltate gravità e latitudini / contratti i fili che fanno verticale la postura /così che siamo rovinati fino a terra”, passaggio che dimostra anche la perizia dell’autrice nell’impiegare un linguaggio scientifico che da denotativo prende corpo, sostanza di simbolo e valenza allegorica, con esiti felici e credibili. Eppure la Ferramosca crede nella possibilità del rinnovamento (la poesia, certo, tramite fondamentale nel processo); c’è una frequenza di fondo che rivendica all’uomo di essere all’altezza del suo ruolo, come emerge con evidenza nella poesia di pag. 19 (fra le nostre preferite), in cui il dialogo con una bambina incapace di comprendere come il cavallo di Troia potesse tenere segreto l’inganno del male che conteneva, porta l’autrice a credere “ in un tempo bianco dove / il sogno semplicemente s’avvera / dove con le parole solo con le parole / la ricomposizione” può accadere. È l’idea di una palingenesi tutt’altro che ingenua, di un riscatto che però richiede dedizione, coraggio, restituzione all’autentico, proprio come quello degli anni dell’infanzia:
torneranno a scorrere i fiumi amorosi
sulle anse a sorgere le città tremanti

e noi nudi d’errore
ritornati bambini a scuola
con visi leonardeschi

la penna in mano a imparare
a riscrivere vita
dai diluvi proteggerla
come nella favola dell’arca
come nella promessa

Un libro da leggere, da centellinare in silenzio, in cui Annamaria Ferramosca, senza dubbio, sa chiamare a raccolta e consolidare la ricerca che la vede e la conferma da anni come una delle voci più autorevoli e originali della scena contemporanea.

Fabrizio Bregoli

 

 

Monica Guerra, Entro fuori le mura, Arcipelago Itaca, Osimo (An), 2021

Entro fuori le mura - Monica Guerra - copertina

E’ una disamina della nostra società molto dura quella che Monica Guerra ci mostra nei versi di questa silloge. Senza permettere all’emozione di limitare la durezza della denuncia, trattenuta, sottesa, quasi compressa da un estremo prosciugamento della lingua, che arriva anche a forzarne la struttura, quando non ne complica pure il portato logico, con l’uso, ad esempio, di certi enjambement – una cifra stilistica della prima sezione – che polisemicamente possono aprire feconde ambiguità: “presto verrà l’autunno avvertivi / lasciando la mia mano sopra i nidi / d’agosto sorridevi / alla resa dei germogli / (…) / non è più la stagione dei germogli / ma l’arco fiorito delle tue ali ridevo / com’è giusto in mano / alla spina dei giorni disabitati”. Poesie quasi sempre molto brevi, ritmate da una sicura tessitura prosodica, dal respiro dei vuoti frequenti tra i versi, dagli ‘aparte’ sospesi degli incisi; poesie che lungo le quattro sezioni, introdotte da exergo non solo di grande spessore significativo, ma di apertura propedeutica, tagliano attraverso, incidono, sezionano la nostra attuale realtà di individui sociali. Significativo il titolo della prima sezione, La misura del vuoto, che rende immediatamente la tragedia attualissima della pandemia. C’è tutta la sorpresa, l’angoscia, anche la reticenza, l’incredulità del primo lockdown: “ma qui è sparare a raffica all’orizzonte”, “fuori è rovo”, “sporadiche razioni di luce e del resto / non vedere – poco importa –“, “quel parlare solo con i cani”. Di colpo il venir meno della convivenza con gli altri, addirittura l’essere esclusi, spostati “a lato” da una narrazione ragionata del presente che altri fanno, ma in cui si dà l’unico modo per esserci: “è la storia che ci tiene vivi, a lato / dieci centimetri di ponte”, che è lo spessore del muro delle case; dentro cui l’isolamento, la solitudine che scarnifica anche l’io: “il volto muore da solo”, non tanto per la mascherina, ma per un’identità non più confermata dallo sguardo dell’altro. Le reazioni sono di grande impotenza: “tu che mormori / il vuoto non esiste rampicando solitudine”, che ripeti come un mantra “un germoglio / è questa solitudine”, mentre vai “disertando sabbia alla clessidra”, in realtà ti accorgi che si accampa un altro male devastante: “-sempreverde / il ramo dell’indifferenza”, vero “diluvio quotidiano”, tanto che si devono accogliere “gli inciampi” come “doni / a piene mani”. E poi il grande dramma di coloro che vengono meno, spariscono di colpo , una devastazione nella già “spina dei giorni devastati”, appaiata alla morte vegetale per la terribile siccità. Pensare, vivere quelle morti solitarie: “immagino come un’isola / l’ultima carezza sotto le dita mentre / è solo il vuoto che le graffia” e dirsi che bisogna imparare, abituarsi “alla voce del verbo perdere”. E’ forse possibile intravedere uno spiraglio in un’assurda contiguità tra camera mortuaria e camera di un vecchio isolato che compie gli anni, in una casaprotetta: mentre “il trapano” sigilla, ‘spegne’ “la bara”, la voce di una ragazza, che “per procura” soffia, “fuori dai vetri” che isolano il vecchio, su “novantadue candeline”, dice: “Bab, a t’fasè j’avguri”. Alla fine, dice la poeta, è la più vitale “liturgia per andare in pace”. Nella seconda sezione, Istantanee, si è fuori dalle mura di casa, ma dentro una ben più solida chiusura, quella dell’incomunicabilità. E’ un carosello di schizzi incrociati in giro, ma di quegli schizzi che con pochissimi tratti definiscono l’essenziale irripetibile. C’è subito, quasi a segno emblematico, l’assurdo paradosso per cui, volendo accedere alla “Charity” pubblica, ai barboni senzatetto viene fatto l’obbligo di fornire un indirizzo. Quindi è schizzata l’indifferenza di fondo nei rapporti apparentemente amicali; l’incomprensione reciproca dei bisogni, dei diritti degli altri; l’incomunicabilità fra culture e modi di essere vivi, per cui “- il tempo / è ringhiarsi l’un l’altro –“; l’impazienza verso i limiti, le necessità dell’altro, umano o animale che sia, che così viene strattonato, impedito, strofinato con malagrazia da chi dovrebbe aiutarlo. L’ossessione di far presto, dal traffico (molto potente immagine qui: “ i pickup si gonfiano ai semafori”) all’uomo che “assedia ogni minuto l’orologio”, in un affollarsi di figure non solo eterogenee, ma aliene nel loro proporsi ed interporsi, perché “tutti corrono d’intorno tutti sudati corrono / come lo avessero detto alla televisione”, secondo le regole di un conformismo che tutti rende burattini tra loro estranei. Ormai, infatti, c’è l’incapacità di stare insieme, al di là di un affiancamento da “isole mute… in arcipelaghi”. Anche nelle famiglie non c’è più capacità di comunicare: tra cani, figli, mogli, non riescono a darsi più niente, ognuno con una ragionevolissima giustificazione alla propria sovversione di un comportamento prestabilito, che l’altro non capisce, però, non tollera e reprime: il cane vorrebbe stare “un po’ in pace” all’ombra, il bambino non ha più fame per finire il piatto, la madre stanca non riesce ad entusiasmarsi alla “parvenza di vacanza” in collina e vorrebbe solo dormire, il padre, apparentemente ‘padrone’, nervoso perché cassaintegrato o senza paga. Significativi due altri schizzi: quello dell’atteggiamento dei famigliari verso il “bravo ragazzo” che chissà come e perché è caduto vittima di una qualche violenza da lui perpetrata su altri; l’incapacità di definirsi in sé e da sé da parte dei tanti che esistono quasi solo come foto, pensieri, corpi postati sui social. Nella terza sezione, La paralisi del giorno, domina la paura, l’incapacità di essere e di pensare diversi, l’immobilità nel conformismo. E’ una società, la nostra, ben recintata, dove “non un’orma fuori posto”, perché “ci sbriciola più del colpo / la tana della paura”. Solo fango tra le “paludi / immortali” di solitudini, vittoriose o perdenti che siano, perché non si danno conclusioni che si distolgano dal “ribadire noi i giusti / e qualcuno sempre contro”. Allora “l’occhio spranga le persiane” e si chiude nella “risacca del sonno”, impenetrabile dal vedere e dalla responsabilità, in un mondo hobbesiano dove homo homini lupus, al punto da chiedersi se la situazione sia segno di una tragica perdita o piuttosto l’inizio di una mutazione dell’uomo. Poi qualcosa la poeta lascia tralucere: “se l’albero si converte in croce”, la “linfa” vitale, nonostante tutto, si muove, e, non certo sulla spinta del “frutto proibito della paura”, “estirpa i chiodi dalla radice”. Così come smaschera il pericolo mortale del “canto” delle sirene –conformistiche, consumistiche, egoistiche, dico io – , che non si può credere di potere ‘godere’, assecondare, semplicemente legati come Ulisse all’albero maestro, perché quell’Itaca, a ben vedere, è solo un “pretesto” che sigilla il confinamento in un Limbo amorfo e nientificante. Ma il fatto è che il nostro mondo non ha più “eroi”, che i potenti vi restano sempre e comunque a galleggiare in situazioni di potere, che un falso utilitarismo ne determina valori e bisogni. Non c’è più “contempo”, il tempo assieme è troppo “difficile”; anche il futuro è vuoto di “aspettative”, chiuso com’è “l’orizzonte … nella tela di un ragno: “il passo per troppa esitazione” affonda e “si scioglie nell’asfalto”. Infine solo nell’ultima sezione, Nonostante, giunti proprio al limite estremo, quando per sperare bisogna arrivare a credere nell’ “impossibile”, si intravede un varco. Senza rinnegare che la vita è dura, che c’è sempre un vento pericolosamente capace di abbattere, si osa che bisogna imparare a “navigare i seni verdi dell’onda” per essere vivi, a vedere negli interstizi dei rami “la bellezza della zagara”, a cogliere il “calpestio” che viola il “cono d’ombra” dove “non arriva mai nessuno”, a sentire il bruciore vitale del sole, della parola, delle cose, “fuori”, anche quando “il gelo reclama una croce” e pare inchiodare ad un’immobilità di morte, e nonostante la tragedia ambientale provocata dall’uomo, nella sua “inversione / del fine con il mezzo”. La salvezza può essere solo nell’uscita dalla separazione incomunicante, dall’omologazione distruttiva. In fondo basta poco, magari imbattersi in pieno centro bolognese in un bar dove fintissimi enormi “bastoncini di zucchero” alle pareti e “casse /di bibite colorate” offrono un appiglio, se non per salvarsi dalla realtà (“la memoria non cicatrizza così”), per decollare almeno nelle lucine della “finzione”, che, chissà, delle volte eppure “salva la vita”.

e la voce le mille voci
la fioritura della pietra
restiamo dove
non è il tempo là dove
lo spazio non è cosa
deludiamo i confini
e miele dai seni di ciliegio
diveniamo l’altro,
la stessa cosa

 

Milena Nicolini

 

 

Testimonianze mantovane delle deportate di Ravensbrück (1999)
Tracce e frammenti di memoria

IMSC
Gruppo 7- Donne per la pace

Publipaolini ed. 2020

Un libro coraggioso e non solo perché viene alla luce dopo ventuno anni.
Nel maggio del 1999 furono ospitate a Mantova donne del CIR, Comitato Internazionale di Ravensbrück, per iniziativa di molti enti, associazioni, comunità e istituzioni. Nina Baranowa, russa, Nella Baroncini, italiana, Butz Drooghaas, belga, Nadja Kalnickaia, ucraina, Madeleine Rabitchov, francese, Christiane Réme, francese, Lucienne Rolland, francese, Edith Sparmann, boema, Mirella Stanzione, italiana, Irma Trksak, austriaca, Lucas Ulritz, belga, sono nomi di cui restano le voci nelle registrazioni, non sempre nitide, del tempo. L’Istituto Mantovano di Storia Contemporanea ebbe un ruolo fondamentale nel coinvolgere scuole, organizzare gli incontri, preparare traduttrici e traduttori, coinvolgere i mediatori e registrare le parole di queste donne che avevano vissuto l’esperienza della deportazione in un campo passato alla storia come “l’inferno delle donne” (secondo la definizione di L. Russel, nel libro Il flagello della svastica) e situato a poche decine di chilometri da Berlino.
L’Archivio di Stato di Mantova, diretto da Daniela Ferrari, si dispose ad ospitare nella collana “Strumenti” della sua Scuola di Archivistica, Paleografia e Diplomatica, la pubblicazione delle testimonianze. Subito però l’impresa si rivelò ardua soprattutto per la frammentarietà delle registrazioni, qualcuna in VHS e qualcuna in semplice cassetta audio. Difficile persino ricostruire l’avvicendarsi delle voci, dare loro il nome, comprendere la situazione in cui la testimonianza era stata raccolta e definirne la traduzione. La difficoltà dell’impresa fece desistere dalla realizzazione. Nel 2016 di nuovo si ragionò sulla necessità di non disperdere quel materiale prezioso, sia pure frammentario e a volte indecifrabile, e si aggiunse un tassello alla raccolta, soprattutto convertendo in formato digitale i materiali conservati. Ancora una sosta e finalmente la ripresa del lavoro nel 2020, con la soluzione dei problemi di assetto del volume.
Le donne di Ravensbrück sono quasi sempre internate politiche, appartengono a gruppi di resistenza antinazista nei loro paesi, hanno formazione diversa, ma raccontano l’esperienza del lager tutte invitando alla condanna dell’odio e di ogni forma di dittatura. La loro voce ha una speciale rilevanza perché “esiste una cultura femminile, un modo femminile di pensare e di agire, e non tanto perché le donne siano migliori degli uomini, quanto perché gli oppressi – e le donne a lungo sono appartenute, e in parte ancora appartengono al mondo degli oppressi – sono in grado di sviluppare modelli di vita e ideali più avanzati rispetto a quelli degli oppressori” (Daniela Ferrari, nell’Introduzione, riprendendo un frammento da Le donne di Ravensbrück, di A. M. Bruzzone e L. Rolfi Beccaria).
Riuscire a parlare dell’esperienza concentrazionaria è un problema che molti hanno approfondito: le donne spesso non hanno luogo per raccontare quanto hanno vissuto; alla difficoltà già grande per tutti i sopravvissuti, si aggiunge, nell’esperienza femminile, la paura del giudizio, dell’essere considerata falsa, del racconto storpiato e malinteso. Devono passare anni prima che quella storia veda la luce, che si possa comunicare nella scrittura o nel racconto orale.
Nel volume, che presenta il Gruppo 7 – Donne per la pace come parte fondamentale nell’organizzazione degli incontri nelle scuole, alla voce di Fernanda Goffetti nella Prefazione e a quella di Daniela Ferrari nell’Introduzione, si accosta l’ultimo saggio di Anna Rossi Doria, scritto poco prima della morte, Le deportate fra solitudine e solidarietà, e destinato proprio a questo volume. Anna Rossi Doria comincia la sua riflessione dal silenzio che ha caratterizzato la deportazione femminile fino al volume già ricordato di Lidia Rolfi Beccaria e Anna Maria Bruzzone, pubblicato nel 1978. “Analizzare una differenza tra uomini e donne nell’esperienza della deportazione non significa in alcun modo stabilire una gerarchia, che sarebbe mostruosa, delle offese subite e del dolore patito, ma, appunto, una differenza”. La differenza si definisce per le donne soprattutto nel rapporto con il corpo: sperimentazioni, scomparsa delle mestruazioni, rasatura dei capelli, costrizione alla nudità, gravidanze violate, neonati uccisi… Ma alla sofferenza si accosta una forma altrettanto femminile di resistenza: “il potente istinto vitale della donna fattrice produceva anticorpi… la mia amica Jeannette non faceva come me che leccavo il palmo della mano fino a toglierne ogni traccia di untuosità (della margarina della razione del sabato [n.d.r.]). No! In ultimo Jeannette passava la mano sul contorno degli occhi: margarina come crema antirughe. Ebbene, quel gesto apparentemente frivolo era gesto di forza, gesto di resistenza, resistenza delle donne del lager, nel loro ostinato volersi umane” (Liliana Millu, All’ombra dei crematori). E poi nel campo esisteva la solidarietà, fatta magari di piccoli gesti, di un cucchiaio di minestra, di un guanto donato per scaldare una mano, un pezzo di pettine condiviso, solidarietà che si intrecciava anche con segni di gelosia o gesti d’ira o con il progressivo venir meno dell’interesse per il mondo e le sofferenze delle altre. E tutto in quella continua alternanza di solitudine interiore e implacabile assenza di solitudine materiale.
Alla raccolta di Testimonianze segue una Scheda tecnica sul campo di Ravensbrück e una postfazione, Inventari per il futuro, di Bruno Maida che torna sul tema della forma di disumanizzazione che il nazismo applica alle donne e che trova nella violenza sul corpo una dimensione di brutalità e disgregazione assolute. Lì si manifesta la capacità di conservazione e resistenza che afferisce all’esercizio di cura praticato dalle donne, fino all’espressione di quella solidarietà manifestata anche nello spazio estremo del campo di sterminio.
In mezzo stanno le Testimonianze, appunto, da leggere anche nella frammentarietà denunciata dalle curatrici del volume, anzi forse proprio per quella frammentarietà che riporta al carattere specifico della narrazione di memoria e che, se non restituisce la storia nella sua scientificità, certo aiuta a ragionare sul presente, sulle sue molteplici ferite.

Nella Roveri

 

 

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