NOTE DI LETTURA, a cura di Fabrizio Bregoli, Nella Roveri, Carlo Giacobbi, Sergio Gallo

(immagine di WildOne da pixabay)

In questo numero:

  • Fabrizio Bregoli su Stefano Prandini, Salvatore Contessini, Giuseppe Carlo Airaghi
  • Carlo Giacobbi su Annalisa Rodeghiero e Franca Donà
  • Sergio Gallo su Paolo Gera
  • Nella Roveri su bambini di Quatrelle e Chimamanda Ngozi Adichie

 

Stefano Prandini, Il sale della terra (Gilgamesh Edizioni, 2019)

Questa raccolta di Stefano Prandini, insegnante e filosofo, autore oltre che di poesia anche di un libro inchiesta sulle mafie, raccoglie poesie che hanno come punto di riferimento la vita, l’esperienza personale dell’autore fatta di incontri con il mondo, con l’altro.

Il titolo esplicita da subito l’impronta della silloge che è ricca di riferimenti religiosi e biblici, tanto che alcune poesie assumono la forma dell’invocazione, della preghiera, senza temere di rivolgersi oltre la sfera terrena, calandosi nel mistero della divinità e del suo rapporto, del suo dialogo spesso complesso con l’uomo: tuttavia la poesia di Prandini non chiede di esiliarsi e di ripudiare il mondo, ma è poesia invece con un forte afflato sociale, una poesia dell’impegno e del confronto in cui l’uomo è chiamato a relazionarsi con la sua dimensione più propria, quella di un uomo tra gli uomini. Ne emerge una voce chiara, comunicativa, con un linguaggio semplice e diretto, lontano dagli espedienti artificiosi e artificiali di certa poesia di ricerca o, peggio, atteggiata: una dizione parca, a tratti discorsiva, sempre concreta e calata nella realtà, sobria nella forma e nelle figure, con l’uso della rima per mettere in evidenza rapporti, relazioni.

È una poesia che si rivolge a tutti, quella di Prandini, mai elitaria ma accogliente, senza però scadere nel luogo comune o nella tentazione della poesia edificante: è invece una poesia che invita a indagare sé stessi, porsi domande, scegliere strade, assumersi responsabilità. Alcune situazioni, esperienze, accadimenti vi diventano allora una sorta di “exemplum” da cui trarre ammaestramento: si vedano le belle poesie sul guscio di lumaca, sul fiore morto in boccio, sulla” smobilitazione” di un centro commerciale quando giunge l’ora di chiusura, sull’aneddoto di una vigilia di Natale colpita da un improvviso black-out che permette di riscoprire l’autenticità del ripiegamento interiore, del buio, del silenzio. Grazie a versi in cui campeggia il contrasto dialettico fra luce e buio, fra vita e morte, fra sgomento e speranza, Prandini ci trasmette la testimonianza di una poesia dell’impegno, della fiducia nelle possibilità dell’uomo di aspirare alla civiltà, alla tolleranza, al bene, consapevoli che in questo sta la nostra missione più autentica: “Ed è di questa terra / che siamo il sale”; “Per questo siamo uomini e viviamo”.

Fabrizio Bregoli

 

A oriente di qualsiasi origine. Rêverie e coincidentia oppositorum nella poetica di Annalisa Rodeghiero.

Potremmo definire A oriente di qualsiasi origine (Annalisa Rodeghiero, Arcipelago Itaca, 2021) una sorta di promenade esistenziale in cui lo sguardo dell’io lirico – quasi affetto da rêverie cosmica nell’accezione di Bachelard – contempla l’esistente per indagare <<il senso vero delle cose>> (cfr. altresì <<Trovare un varco al vero era l’intento>>, p. 20).

Un’indagine che prende l’abbrivio da un’ostinata fides della Nostra nel ritorno di ogni entità alla sua scaturigine, al suo archè e, quindi, al suo principio vitale. Non a caso il verso incipitario dell’intera silloge così afferma: <<Alla fine è l’alba>>.

È con questa sentenza che l’autrice dimostra di resistere all’apparente nullificazione che il decorso temporale sembra produrre sulla realtà, a voler significare che non v’è cesura tra morte e vita, ma continuum, e che, soprattutto, alla fine segue sempre l’inizio e non viceversa.

Detto diversamente, la Rodeghiero, sembra propendere per una concezione circolare dell’esperienza (cfr. <<il perpetuo ricrearsi>>, p. 25). Il ciclo vitale non si esaurisce nel segmento temporale tra nulla e nulla, non procede linearmente dall’alfa all’omega, né così potrebbe essere, poiché, come acutamente osserva la poetessa, <<È un’invenzione il tempo / non esiste>> (cfr. p. 80).

Si vuol dire che, nell’opera in commento, la dimensione temporale viene in rilievo non nell’accezione quantitativa del chronos, ma in quella  qualitativa del kairos, termine, quest’ultimo, che pone l’accento sulla significatività dell’essere nel mondo.

Si leggano in tal senso versi quali <<A lungo ho cercato nelle radici intricate / del sottobosco il senso>> (cfr. p. 17) o <<dici d’intuire solo adesso il senso / nel gesto supremo di creazione>> (cfr. p. 62); versi indicativi, appunto, dell’esigenza tutta umana di sperimentare <<una felicità solare>> (cfr. p. 24), una <<felicità struggente>> (cfr. p. 28) per quanto ardua sia l’impresa di conseguire un’appagante pienezza.

Ed infatti, l’appetizione, il desiderio d’assoluto che pervade le liriche – la nostalgia del totalmente altro saremmo tentati di dire con Horkheimer – sono quasi sempre frustrati da una compiutezza che, se da un lato s’annuncia, dall’altro non si rende mai nella sua totalità; sicché, la condizione esistenziale che ci pare venga in dominante, è quella dello stare in limine, in attesa d’una epifania salvifica che seppure in nuce o ab ovo, tuttavia resta allo stadio di promessa, in fieri, sempre attuabile si, in procinto d’essere, ma di cui si soffre l’assenza o quantomeno la distanza.

Locuzioni quali <<ciò che deve ancora essere>> (cfr. p. 26), <<Accettare il senso d’incompiuto in noi>> (cfr. p. 40), <<Nel silenzio ocra riposa, inattuato qualcosa. / Forse un’idea di felicità sempre distante>> (cfr. p. 42), sono esplicative di quanto s’è poc’anzi affermato.

Un’incompiutezza, quella della Nostra – un <<Tempo irrealizzato>> (cfr. p. 57) – che genera un <<volare inquieto>> (cfr. p. 19) e che esige, quale rimedio, di <<alzarsi in profondità>> (cfr. p. 20), per giungere alla quiete di ciò che l’autrice definisce <<verticalità beata>> (cfr. p. 43), quasi ad evocare la benignità di una trascendenza capace di offrire riparo, dimora.

Se infatti è vero – e non potrebbe essere altrimenti dati gli insistiti riferimenti agli archè di diversi presocratici – che la poetica della Rodeghiero muove da postulati filosofici (tra i quali spicca quello eracliteo afferente la dottrina dell’unità dei contrari e del panta rhei), non può tacersi il fatto che l’intera silloge è pervasa da una sorta di fiat lux (l’oriente, l’alba, la chiarità, il chiarore, la luce, etc.), da un rimando, cioè, che non è escludibile sia legato alla narrazione veterotestamentaria della Genesi.

Del pari, nulla esclude che il verso <<L’origine stava nel nome pronunciato>> (cfr. p. 16) tragga spunto dal versetto incipitario del Prologo di Giovanni (cfr., Gv 1, 1 <<In principio era il Verbo>>).

Lungi dal voler affermare che la poesia della Rodeghiero pertenga ad una dimensione strictu sensu religiosa, si vuole solo sottolineare che la stessa agita categorie spirituali (cfr. <<ma l’anima – almeno l’anima – / sentivo svincolata dai confini,>>, p. 16) che si confrontano con il mistero (cfr. <<il mistero di certi istanti minimi>>, p. 40) e dunque con la percezione di un segreto ultimo di cui si attende l’apocalisse, la rivelazione.

Così intesa, l’opera realizza un’efficace sintesi tra immanenza e trascendenza, fides e ratio, tanto da potersi definire escatologica, poiché vocata alla gnôsis dei destini ultimi dell’uomo e dell’universo.

Il dettato poetico, elegiaco nel suo dipanarsi in senso intimistico e meditativo, dalle indubbie influenze rilkiane, procede per antitesi, per polarità o giustapposizioni (cfr. <<Appartenere>> vs <<esserne fuori>>, p. 57; <<Svanire>> vs <<ricomparire>>, ibidem) che non si limitano a fronteggiarsi, ma si compenetrano, si amalgamano <<al tempo stesso>> (cfr. p. 57), vale a dire simultaneamente, in quel processo di reductio ad unum che ci sembra rappresenti il fil rouge dell’intera silloge.

Una poetica, quella della Nostra, dunque, metalogica, poiché avversativa del principio di non contraddizione; poetica che fa della coincidentia oppositorum il tratto distintivo, la cifra stilistica e contenutistica dei testi, alla maniera – s’è c’è concesso azzardare un paragone – di Mario Luzi, di cui la Rodeghiero recupera, oltre la versificazione a gradini, temi e concezioni esistenziali quali la perpetua oscillazione tra divenire ed essere, mutamento e identità, tempo ed eternità.

Carlo Giacobbi

 

Salvatore Contessini – La direzione del silenzio (La Vita Felice, 2021)

Fin dalla scuola superiore è noto a tutti che le grandezze fisiche possono essere suddivise in grandezze scalari e grandezze vettoriali: queste ultime sono caratterizzate oltre che dall’intensità (dal loro valore assoluto) anche dalla direzione (la retta ideale lungo cui si esercitano) e dal verso (verso destra o verso sinistra) che seguono. Grandezze vettoriali sono il movimento, la forza, la velocità, l’accelerazione, i campi elettrico, magnetico, gravitazionale.

Difficile sapere se Contessini usando il termine “direzione” potesse aver pensato anche a questo, tuttavia il riferimento alla “direzione” presente nel titolo della raccolta bene circostanzia la volontà di ricerca, il bisogno di ritrovare o di ridefinire una strada che è alla base di questo nuovo lavoro poetico: occorre ripartire dal grado zero della parola, ossia il silenzio, quello stadio in cui la parola non è ancora apparsa ma al tempo stesso quello stadio in cui ogni parola è possibile, attende di essere detta. “È sull’orlo della notte / quando il rumore tace / che le parole cambiano verso”: percepire queste “mutazioni”, identificare questi segnali che scaturiscono nel silenzio è allora il compito del poeta, capace di questo ascolto, una volta che ha abbandonato tutto il superfluo della chiacchiera, l’ansia della scrittura che è fine a sé stessa se non è alimentata dalle ragioni profonde, dal contatto con quella sfera di indicibile che è alla base della dizione poetica. E dal silenzio occorre partire; non esistono alternative: “la sorpresa del silenzio / che diviene / oro di quiete”. Contessini spiega bene questo percorso nella sua nota iniziale, confessando come questa nuova poesia si origini proprio dalla constatazione iniziale di un inaridimento della vena creativa, dal cedere e dal venir meno dell’ispirazione che, esperito il silenzio in tutta la sua forza intrinseca, chiede di intraprendere nuovi percorsi, aderire a nuove forme che non sono il canto tout court, ma una scarnificazione ultima della parola. Gli altri amici poeti a cui si devono le note finali, testimoniano la vicinanza rispetto a questa esperienza, la sua verità; del resto se “Leggere un libro è come essere / in compagnia di chi lo ha scritto. / Rileggerlo diviene indizio di amicizia.”.

Scarnificazione, dicevamo: ecco allora il ricorso a forme poetiche minimali (l’haiku, il distico), con un evidente sapore sapienziale e aforistico, la riflessione a tratti ironica e smitizzante, l’abbandono di ogni ruolo precostituito a favore di una libertà espressiva, anche se ridotta ai suoi minimi termini. Procedere lungo questa “direzione” è un gesto allora di coerenza e di coraggio, ma l’unico che permette di accogliere “il corso nuovo che bussa nel progetto”, “un seme / per terra di domani”: la memoria, che pure è un altro degli elementi che ricorre con frequenza in questo lavoro, per quanto “labile”, imprecisa o ingannevole, è il terreno su cui edificare la promessa di una parola inedita che attende di essere detta, liberata dalle incrostazioni del mestiere, dalla sua “comfort zone”. Con un pizzico di “superbia” si può allora dire: “Non tutto mi arriva alla vista, / di più riesco a immaginare. / Così lo scrivo in versi / anche per chi non vede.”. Aprire un varco nell’invisibile: ecco bene riassunto l’intento della poesia.

Il fascino del nuovo lavoro di Contessini sta proprio in un questo movimento dialettico, in questo campo di sfida permanente in cui si cimenta la parola, in un volo spregiudicato senza poter contare su una rete di protezione, perché solo qui “Gli spazi si fanno insospettati”.

Fabrizio Bregoli

Giuseppe Carlo Airaghi – La somma imperfetta delle parti (Giuliano Ladolfi Editore, 2021)

Questa nuova raccolta di Airaghi conferma la tipica cifra stilistica dell’autore: una poesia fortemente radicata nella quotidianità, nella frequentazione partecipata e assidua del mondo, ricorrendo a un linguaggio piano dal registro linguistico medio, tutto volto alla comunicazione senza derive auliche o intellettuali, nell’’idea di una poesia accessibile, a misura d’uomo. Nessuna invocazione alle muse “franate dai loro piedistalli”, allora, come sostiene ironicamente l’autore; ironia, presente qui e altrove, che è prova ulteriore dell’umanità che muove questa scrittura, da un lato aperta alla pietas e dall’altro così concreta da evitare ogni compiacimento pietistico. L’esperienza quotidiana irrompe nei versi con spontaneità, ne plasma forma e contenuto, secondo un’impostazione etica che è prevalente, guida e unifica il disegno dell’opera, del resto particolarmente variegata, multicentrica si direbbe. Ecco allora uno stile unificante che con coerenza si propone narrativo, affabulatorio, con il ricorso a una sintassi articolata, a lunghe elencazioni, inserzioni dialogiche, riflessioni che si innestano sul vissuto: compito del verso spezzare questo flusso, a tratti anche magmatico, per porre in evidenza, offrire una luce di lettura, tentare conclusioni, certo mai definitive, ma plausibili, magari limitate e circoscritte nello spazio e nel tempo, ma comunque alla ricerca di un senso, di un percorso rintracciabile.

Assume allora particolare rilevanza nell’architettura del libro il tema del cammino, a cui è dedicato “Il poema del cammino”, sezione finale della silloge, in cui l’autore, che già in una sezione precedente aveva tentato l’abbozzo di una “Autobiografia apocrifa”, si fa testimone oculare di un paesaggio tutto umano che viene attraversato, che incrocia la sua strada e chiede udienza, accoglienza. Aprirsi all’altro è l’unica scelta che evita all’individuo di scoprirsi “tentativo velleitario”, affetto da sordità e incapacità di comprendere il mondo, per quanto la realtà sia sempre frutto di una prospettiva limitata, parziale: “a questa infinitesima parte percepita / a questo parziale, risibile punto di vista / diamo il nome di realtà”. Airaghi denuncia così con obiettività e disincanto il continuo bisogno di autocompiacimento e di autoassoluzione che sono propri del nostro status di uomini, mai sufficientemente coraggiosi nell’assunzione delle proprie responsabilità, nel confronto con la società a cui apparteniamo e con la storia da cui proveniamo, eppure è proprio qui che occorre affondare la lama, per capire “cosa manchi a questa mancanza”.

Se la somma è imperfetta per sua stessa natura – come recita il titolo della raccolta – ossia incapace di restituire l’interezza alla disgregazione delle sue parti, occorre però ricombinare i cocci, i frammenti, le macerie, nella necessità di restituzione di ciascuno di noi a un’umanità più autentica, quella che può far dire a un uomo adulto di non avere delusioni o rimpianti rispetto al ragazzo che è stato. La poesia di Airaghi rifugge dalla tentazione edificante o apodittica, è consapevole del limite di ogni voce poetica che decide di parlare in prima persona: si offre nudo sulla pagina, ma senza mai credersi un esempio né in positivo né in negativo (ulteriore stadio del compiacimento narcisistico); la sua è una voce intima, famigliare, che si rivolge al lettore come a un amico, a un compagno di viaggio. “Camminare e camminare ancora / è l’unico modo che ancora mi resta / per dichiararmi ancora vivo”.

Fabrizio Bregoli

Franca Donà – La verità degli anni (Kanaga Edizioni, 2021)

<<Dì il vero. Non temere>>: così recita un verso di Seamus Heaney. Franca Donà sembra recepire l’esortazione del Nobel irlandese, rendendo, ne La verità degli anni, parole autentiche, tratte dalla diretta osservazione del reale. I versi della Nostra, infatti, sono occasionati – come è dato leggere nel Prologo della silloge anteposto alla Prefazione – da <<un’esperienza preziosa attraversata dal dolore>>, vissuta in prima persona, caratterizzata dalle obbligate distanze che si sono frapposte tra gli uomini per effetto della pandemia da Covid-19, nonché dal lutto per la perdita della madre. Ecco, dunque, che il titolo della silloge, è indicativo dell’esigenza dell’autrice di affidare al verso l’indagine sulla verità della storia, di farsi testimone, come ricorda Miłosz, <<di una grande trasformazione che l’umanità sta vivendo, e a cui la poesia stessa partecipa>>. Non a caso, in larga parte della prima sezione della silloge (pp. 15-40), l’autrice sviluppa, a livello tematico, il fatto storico della pandemia, del quale l’io lirico s’incarica anzitutto di prendere atto per tentare un approccio chiarificatore. La poetica della Donà, come si legge in Serve tornare alla poesia (p. 18), è volta a mettere a fuoco il <<gioco crudo delle verità>>; verità che si potrebbe definire ab re esse, cioè dai fatti: <<marzo senz’abbracci>>, o <<un metro di parole (la distanza)>> (cfr. Marzo 2020 – La speranza, p. 22); o ancora <<il pianto dei soldati sopra i carri / le bare senza fiori e senza croci>> (cfr. La primavera dei balconi, p. 23); ed ancora <<una sirena strazia l’aria>> (cfr. p. 24); <<Campane e sirene / unite in preghiera>> (cfr. p. 25). Anche la sezione titolata <<A mia madre>> si sostanzia in una riflessione ex post sui condivisi accadimenti che hanno caratterizzato il rapporto madre-figlia, che, in quello che S. Agostino definirebbe presente del passato (la memoria), sono tutt’ora vivi, attuali.

La madre viene definita dalla Donà <<mia mano tesa, mio sempre>>, in un tempo <<che non muore mai>> (cfr. Il nostro viaggio, p. 43); in un tempo, quindi, dove pur nella consapevolezza della perdita subita, la poetessa riconosce nella donna che le ha donato la vita <<il tuo essere immortale / oggi, sempre nel mio cuore>> (cfr. Ti regalo il mio buongiorno, p. 44); la presenza della madre viene “respirata” dall’autrice: <<Ho il naso dentro la tua vita>> (cfr. Dentro la tua vita, pag. 46), e dunque ancora avvertita presente seppure nell’esperienza del lutto: <<e piango mia madre, il suo nome tra i morti>> (cfr. Requiem per una madre, p. 49). Franca Donà ha fede nella parola poetica, nella sua attitudine ossimorica a conoscere per contrasti la permanente compresenza di vita e morte. E nel conflitto dialettico la morte non è mai l’ultima parola poiché la vita è portatrice di un’ostinazione a manifestarsi anche dove non ci aspetteremmo: <<il blu di un iris fermo al marciapiedi / a contrastare il grigiore dell’asfalto>> quasi ad erompere trionfante sulla sterilità del vivere di cui l’asfalto è simbolo (cfr. Tutto inizia adesso, p. 15). Sempre a livello contenutistico l’autrice pone in dominante i tòpoi del fiore e del nido (cui le rondini fanno ritorno, con evidenti echi pascoliani), che assurgono a leitmotiv dell’intera silloge: parole chiave da tenere in debita considerazione per avvicinarsi all’intentio della Donà. Detti signa (fiore e nido) sono rinvenibili in sintagmi e/o locuzioni quali – solo per enumerarne alcuni – <<fiore ostinato>> (p. 15); <<quel nido>> (p. 16); <<fiore rosso>> (p. 18); <<le rondini / quando ritornano per sempre al nido>> (p. 21); <<rose un po’ sfiorite>> (p. 22); <<restare dentro il nido>> (p. 23); <<dei fiori sul ciliegio innamorati>> (p. 27); <<gli occhi erano fiori>> (p. 29); <<fecondo fiore del mio sangue>> (p. 31); <<la vita nuova dentro al nido>> (p. 33); <<il nido del ritorno>> (p. 75). Dal punto di vista strutturale, la dispositio dei temi all’interno dei testi, segue in prevalenza la forma lineare: i topic, gli argomenti, si susseguono in progressione ordinata, senza far ricorso a particolari modalità d’intreccio. Quanto sopra evidenziato, unitamente alla predilezione della Donà per il trobar leu, rendono i testi accessibili e di diretta fruizione; i significanti coincidono con i significati; il linguaggio utilizzato è più denotativo che connotativo, segno evidente che la finalità della poetessa è quella di affidarsi ad una dizione comprensibile ai più, seppure mai scontata. La morfologia verbale, per quel che concerne le categorie flessive dei modi e dei tempi, è perlopiù declinata al finito dell’indicativo presente e all’indefinito dell’infinito. Il piano temporale, dunque, oscilla tra la contemporaneità rispetto al momento dell’enunciazione (<<Tutto inizia adesso>>, p. 15, incipit programmatico dell’intera silloge) e l’indeterminatezza e genericità e/o vaghezza dello svolgersi dei fatti (<<insegnare che la vita è onesta>>, p. 60).

Si noti, tuttavia, anche l’uso del futuro, ora negato (<<non ci sarà un ritorno, non ci sarà / un altro treno verso il mare>>, p. 23), ora fiduciosamente affermato (<<e si farà l’amore perché la morte non sia domani>>, p. 28). A livello lessicale, in relazione al registro linguistico, salvo quanto si dirà appresso, ciò che colpisce, è la capacità della Donà di fare poesia utilizzando sintagmi mutuati dall’uso comune e domestico, senza ricorrere, quindi, a lessemi aulici e quindi anacronistici (si notino, sul punto, ad esempio, sostantivi quali <<marciapiedi>>; <<asfalto>>; <<rami>>; <<nodi>>; <<ossa>>; <<pietre>>; <<strada>>; <<mare>>; <<vele>>; <<finestra>>; <<balcone>>; <<lenzuola>>; <<mano>>; <<voce>>; <<occhi>>; <<cortili>>; <<persiane>>; <<miele>>; <<perle>>; <<bottoni>>; <<asole>>). I testi sono arricchiti da molteplici figure retoriche, tra le quali, senza pretesa di esaustività, si segnalano: sinestesie (<<morbidezza bianca>>; <<il verso della luce>>; <<il silenzio di luce>>; <<un tocco d’ombra>>); anafore (<<stendilo piano, questo sole // stendilo piano, il tempo // stendilo piano, il viaggio>>); similitudini (<<come se fossero bandiere al sole>>); metafore (<<sono io l’albero ferito>>; <<gli occhi erano fiori>>); onomatopee (<<fruscio di voci>>); iperboli (<<ma quella notte le stelle sono esplose>>); figure che vivacizzano e colorano il discorso poetico concretando quello “scarto” o “deviazione” dal linguaggio comune – pure come detto utilizzato dalla Donà – che costituiscono l’in se del fare poetico.

Indagando il significato profondo dell’opera, è possibile affermare che il sistema di pensiero dell’autrice, a dispetto dei temi trattati, sia sostenuto da una caparbia fiducia nei confronti di questo nostro complicato essere al mondo. Lo sguardo sul reale, sulla <<verità degli anni>>, è sempre contemplativo, innamorato, mai risentito o viziato da vittimismo compiaciuto. Franca Donà apre la sua finestra sul mondo, lo guarda negli occhi senza paura e vi trova sempre motivo di gratitudine, di possibilità, di speranza.

Carlo Giacobbi

 

Paolo Gera-Ricerche poetiche ( puntoacapo Editrice, 2021)

Trovo semplicemente geniale la struttura della prima parte della raccolta, dove si applica il concetto di “indore” alla letteratura, cercando di ottenere da un materiale di partenza per “decomposizione naturale” un prodotto più concentrato, più evoluto (per certi versi all’avanguardia, innovativo o almeno stuzzicante e inconsueto per il lettore),  alternando nel suo progredire gli “indore” ai “compost”. Con l’intento dichiarato e certamente pregevole “di ripulire a fondo la logosfera, di non ingombrare le galassie di Gutenberg e Zuckerberg” (!!). Devo dire, in tutta onestà, che ho preferito personalmente più le stesure dei 10 materiali di partenza (in particolare gli indore 2,3,4,9 e il 10 con le citazioni  di De André) delle successive composizioni ottenute per “compostaggio”. In tale senso forse avrei lavorato maggiormente sui dieci compost, facendo emergere oltre alla sintesi, all’accostamento ardito di parole scelte (secondo un procedimento apparentemente casuale o di taglia-e-cuci) in alternanza sia la tematica sentenzioso-sapienziale, sia quella ludico-sperimentale. Oppure, vista l’analogia con gli “esercizi di stile” di queneauiana memoria, riscrivere con parole ogni volta diverse scelte dal rispettivo indore, dieci compost replicanti una stessa storia, una stessa situazione, un concetto, una sentenza morale o filosofica. Non so se ho reso l’idea.

Restano frammenti memorabili, molti in riferimento alla situazione del periodo d’isolamento forzato durante la prima ondata pandemica, cito: “Ho fatto solo un giro su un anello di asfalto la consolazione di una ruota di criceto ma nei miei passi imprigionati c’è la voglia e la speranza di chi attraversa deserti”; “Siamo un bel po’ in questo limbo ormai c’è sovrappopolamento… o si decide di aspettare e di essere forti o.. prendiamo la decisione per noi stessi… e possiamo ricominciare da capo”; “Non so, come nessuno di noi sa cosa stia realmente accadendo”.

Felice è la scelta di selezionare il materiale da rielaborare attingendo parole e versi dai dieci Canti infernali e la deflagrazione di queste citazioni dantesche con temi, frasi e osservazioni assunte dall’attualità.

Che l’indagine, l’esplorazione, la ricerca, il tentativo di messa a fuoco del complesso mondo che ci circonda debba essere uno degli obbiettivi (per quanto difficile da raggiungere) di un’opera letteraria, così come l’uso consapevole e intelligente di linguaggi, forme e scritture in modo da ottenere un grimaldello con cui scardinare le coscienze, un acciarino per far divampare barlumi di rivelazioni e visioni, mi vede in perfetta sintonia.

Anche per questo le riflessioni filosofiche che attingono a Wittgenstein e che forgiano la seconda sezione del libro non possono, per ogni autore di versi, che costituire materiale quanto mai necessario e di estremo interesse.

“Per certi versi è solo una questione di tempi. / E questo non è il tempo per certi versi.”

“… scrivere una poesia senza trucchi e senza inganni non è possibile.”

“Io cerco per sentieri paleolitici, / mi inginocchio e raccolgo sillabe scure e gonfie, / radici verbali, selci nominali, / per formare parole non più rotte e collegarle tra loro…”

Per arrivare al climax zanzottiano della prima parte della composizione 15 e della 16, vere e proprie dichiarazioni di poetica, per intensità, argutezza, profondità… da incorniciare.

Siamo dunque nella lucida disperazione dei tempi in cui viviamo “orfani di Dio con una bella aureola di plastica”, siamo “…nomi scritti sull’acqua” (qui si cita l’epigrafe della tomba di Keats)  che lasciano “tracce fuori dal tracciato”.

Infine la terza sezione anch’essa come la prima costruita sulla ripetizione: in questo caso si ripetono i versi iniziali, “la poesia scritta sulla pagina successiva a questa”; postulato che rimanda a una riflessione, una tematica, un intento propositivo sempre demandato alla pagina a venire (nell’infinita attesa di un incontro con un Godot, con una Musa, forse con la stessa divinità creatrice, che però non arriva mai), senza timore che l’ossessiva interrogazione che ci assilla si contamini con i pensieri e i linguaggi del quotidiano, con i vizi, le nefandezze, le contraddizioni che ci caratterizzano e i sogni, le aspirazioni che ci scuotono dal fondo e ci plasmano…fino ad arrivare alla pagina bianca del finale, quella dedicata ai (quanto mai incerti) propositi futuri.

Una conclusione semplice ma illuminante, che ribadisce, se ce ne fosse bisogno, la rara intelligenza di cui è impregnata l’intera raccolta. Ricerche poetiche è dunque un libro coraggioso, pieno di riflessioni, di spunti felici tratti da un diario letterario-esistenziale e che si dipanano lungo una trama e un ordito di pregiata qualità. Se c’è un difetto forse sta nella estrema specializzazione delle tematiche, che potrebbero mettere in difficoltà i lettori poco avvezzi alle discussioni connesse col farsi della poesia, o troppo filosofiche, magari disturbati da questo assillante e continuo (ma necessario, improcrastinabile, imprescindibile) porsi questioni, interrogarsi su noi stessi, sul mondo che ci circonda, su ciò che accade, a scapito d’una più superficiale, scontata e deteriorabile analisi della sfera emotiva. Ma, si sa, ogni opera autentica è una sfida che si deve avere il coraggio di scrivere, pubblicare e, per quanto ostica e difficile, affrontare.

 

Sergio Gallo

 

Bambini di Quatrelle, Il sole di diverte, De Luca editori d’arte 2020

Si tratta della riedizione di un libro stampato già altre due volte, nel 1972 e nel 1996 da De Luca, un libro di poesie di bambini della scuola elementare. Quatrelle è l’ultimo piccolissimo borgo della provincia di Mantova, accostato al Po: se passi il fiume sei in Veneto, se passi la strada sei in provincia di Ferrara. Lì alla metà degli anni sessanta c’era una microscuola con una pluriclasse. Vi insegnavano due maestri straordinari, Gianfranco Maretti e Giorgio Muraro che non tenevano i bimbi composti nei banchi, ma facevano scuola a modo loro, spesso all’aria aperta. Tutti figli di contadini, i bambini erano abituati a stare fuori, lungo i fossi, nei prati, sull’argine, con il sole o la nebbia. Seguivano le stagioni, i lavori delle loro famiglie accompagnati dai maestri che riuscivano a cogliere in questo contatto tutti gli elementi per fare scuola, per leggere, scrivere e contare. In più c’erano la musica, il teatro, la poesia e i bambini prendevano confidenza con la lingua della poesia. Diventavano anche poeti. Nel 1969 alcune poesie, scritte dai bambini sulla morte di Robert Kennedy, vennero inviate ad un settimanale importante che le pubblicò subito. Si creò un grande interesse intorno a una pratica didattica che sovvertiva la prassi, ma era radicata in una conoscenza profonda dell’infanzia e dei suoi bisogni. Gianfranco Maretti aveva preso parola per i bambini tutti in una pagina intitolata Un’etica dell’infanzia:
Noi bambine, noi bambini, … ci portiamo dentro l’impulso a crescere e conoscere, l’impulso alla gioia. Il nostro primo conoscere è sensorio, una gioia assoluta, irrefrenabile, come le linfe in circolo nelle piante. Successivamente apprendiamo sia per vie tutte e solo nostre sia per interposizione di chi ci fa da maestro, da maestra.
Se non pratichiamo, noi non conosciamo, e siamo sicuri di conoscere soltanto ciò che sappiamo fare…
Noi meritiamo di entrare nel mondo senza paura, senza tenerezze mancate, senza domande eluse.
Voi che ci fate da maestri, da maestre, studiateci e studiateci, se, a parer vostro, non abbiamo voglia, se ritardiamo, se ci ribelliamo, se ci perdiamo. Studiateci.
Noi vi abbiamo già studiato.
Da questa idea partivano le connessioni immagini-pensiero raccolte nelle poesie dei bambini. Per esempio, sulla fotografia dell’uccisione di Bob Kennedy, Fabrizio Masini di dieci anni scrive:

Nell’albergo a mezzanotte
la luna fa scintillare
gli occhi dell’innocente.

Oppure, in autunno, osservando le foglie, Claudio Rosini di sei anni:

Le fa cadere il vento
e giocolare.

Una pedagogia che coniuga sapienza e poesia, che lascia fiorire le parole dalla terra; lo dice Elisa Bellocchio di dieci anni:

Nelle vene degli alberi
scorre l’ombrarossa
d’aprile
vaga nelle crepe
della terra.

Nella Roveri

Chimamanda Ngozi Adichie, Appunti sul dolore, Einaudi 2021

Quando ho pensato di scrivere questa nota non mi ero accorta delle tante recensioni uscite sui giornali e sul web. Il libro di Chimamanda Ngozi Adichie, Appunti sul dolore, è piccolo e si allontana molto dagli altri suoi libri, corposi, tesi a mostrare come le storie siano sfaccettate e varie e come solo gli stereotipi riescano ad omologarle. Nella differenza rispetto ad essi, pensavo che queste poche pagine sarebbero passate abbastanza invisibili.

Un libro piccolo, trenta appunti dalla morte del padre, amatissimo e lontano, in quella Nigeria sudorientale delle origini, irraggiungibile per il lockdown.

“Poteva diventare novantenne”, afferma uno dei fratelli, e invece muore all’improvviso, dopo un sereno “buonanotte” augurato al telefono alla figlia che vive negli Stati Uniti. E Chimamanda comincia a fare i conti con l’assenza, con i ricordi, con il corpo che accampa le sue ragioni attraverso il pianto, l’urlo, lo sgomento, la bocca amara che forza a un continuo inghiottire. La morte di un padre tanto amato, uomo colto e autorevole, impone di mutare lo sguardo sul tempo, di domandarsi quali riti accogliere e come ricalibrare la propria esistenza sottoposta allo sconquasso della perdita. Anche da adulti, il venir meno della protezione del padre insinua l’idea che non si possa più vivere. “Una volta che partivo per la Danimarca, dopo avermi augurato buon viaggio, aggiunse, nel suo tono quieto e sornione: E quando arrivi in Danimarca, non dimenticarti di andare a trovare Amleto” (p. 45). Proprio Amleto che cerca il padre perché lo protegga dall’ingovernabilità insensata della vita, che urla il suo dolore perché troppo forte e spietata è la realtà che deve affrontare, la realtà della perdita di ancoraggio.

Chimamanda a poco a poco affronta i nodi che questo evento compone: la fine di un rapporto straordinario in cui il padre è il primo giudice del lavoro della figlia, severo e giusto; la maniera africana di affrontare il lutto (ai funerali si balla) agli antipodi di quella occidentale (il lutto si vive nel silenzio); il fare i conti con una propria declinazione del tema identitario: africana in America, non afroamericana; infine sentire lo strappo della lingua che impone di usare il tempo passato lì dove un attimo prima era naturale il presente. Il lessico diventa una pagina nuova, non ancora scritta che comincia sospendendo i luoghi comuni delle condoglianze e impone una frattura tra prima e dopo, tra sé e il mondo.

E conclude: “Sto scrivendo di mio padre al passato, e non posso credere che sto scrivendo di mio padre al passato”.

 

Nella Roveri

Please follow and like us: