Note di lettura, a cura di Anna Maria Farabbi, Nella Roveri e Milena Nicolini

Laura Corraducci, Highlands Tour, (Aliud, 2020)

La magnifica edizione di Gianluigi Bellucci per la sua casa editrice d’arte Aliud, contenente un testo di Laura Corraducci e un’incisione di Andrea Guerra, uscita lo scorso anno a Novembre, mi permette non solo di elogiare l’intera opera e gli artisti che l’hanno composta, ma aprire una riflessione sulla preziosità dell’editoria d’arte.
Laura Corraducci è nativa di Pesaro e insegna lingua inglese, da anni vive la poesia anche organizzando eventi. Il suo testo dà titolo all’opera: Highlands Tour. Emoziona toccare con il dito il rilievo delle sue parole nere, esatte, asciutte, capaci di un’apertura nel profondo e nella vastità, senza prevedibilità e con uso originale del ritmo sintattico e icastico.

in ogni parte io vedo lo svelarsi dell’enigma
in quanto cielo strappato come una veste
nella danza solenne che fa l’aria con i fiori
mi basta bagnarti i capelli con la voce
e sentire la preghiera di un eremita fra le rocce
cantano le volpi stanotte nel buio della brughiera
voglio vedere ancora la luce annegarsi nell’acqua
e riportarti domani i nostri occhi intatti sulle mani
la morte qui è solo un sogno cancellato dal mattino

Il segno incisorio di Andrea Guerra, giocato in uno stellame punteiforme tra scuri e chiari, scrive armonicamente parte delle curve dell’ellissi, con un elegante rimbalzo concavo speculare, su fondo nero. Come un eco dialettico dal bianco al nero.
I due lavori artistici di Corraducci e Guerra, si stendono sul tappeto della carta a fisarmonica in complementarità.
Vale la pena citare l’intenzionalità dedicatoria dell’opera: a nonna Maria, mia: in occasione del quarto anno di vita di Elena, ideata, stampata e allestita a mano nell’officina delle edizioni Aliud, tirata in 60 esemplari numerati e firmati, come dono per le persone per le quali nutriamo stima ed affetto.
Ecco. Ho voluto riportare integralmente la dicitura di Gianluigi Bellucci, per porgere il calore, il significato di un lavoro corale che, oltre a un’altissima qualità espressa in tutte le sue componenti, apre a un’umanità tenerissima e riconoscente.
Questa è il cuore della bellezza che mi piace indicare e porgere a testimonianza, contro un opportunistico consumismo editoriale e artistico, contro una modalità sciatta seriale di espressione che imbocca e, al tempo stesso, viene inghiottita dal mercato e da una massa di fruitori famelici e anestetizzati.
Qui, la pazienza minuziosa del segno si coniuga alla raffinatezza dei materiali, senza retoriche aristocrazie, ma con un fare di officina, di sentimento creativo, intimo e coinvolgente, innestato nel plurale.

Anna Maria Farabbi

 

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Fioretti, Grisot, Viale – Il viaggio di Zaher. Percorso interculturale di cittadinanza e solidarietà (Edizioni La Meridiana, 2021)

Il viaggio di Zaher. Percorso interculturale di cittadinanza e solidarietà - Giuseppina Fioretti,Francesca Grisot,Gianna Viale - copertina

È uscito in gennaio un volume prezioso che aiuta a trovare un modo (o un metodo) per entrare nelle problematiche del mondo in cui viviamo accanto ai bambini. Il viaggio di Zaher. Percorso interculturale di cittadinanza e solidarietà, edizioni la meridiana, parte da una storia vera, una delle tante, per accompagnare alla comprensione, o almeno all’avvicinamento, di un mondo che rischiamo di conoscere solo dal tamtam mediatico, spesso per tutto  uguale nelle parole e nei toni.

Conosco la storia di Zaher dal 2008, quando finì sui giornali, qualcuno lo ricorderà, per i caratteri toccanti, commoventi, della vicenda. A me la raccontò Francesca Grisot, dottoressa di ricerca in lingue mediorientali (Iraniano, Afgano) e mediatrice linguistico-culturale in ambito migratorio a Venezia. Andai a trovarla per ragioni di studio, insieme ad altri, e ci raccontò del lavoro che stava facendo sulla vicenda di un ragazzino afgano, morto mentre cercava di fuggire aggrappato sotto un tir. Nelle sue tasche erano stati trovati la corda di un aquilone, un decreto di espulsione dalla Grecia, quattro pupazzetti di plastica e un’agendina telefonica. A lei era stato affidato dalla polizia di Mestre il compito di tradurre l’agendina, scritta in farsi, e di svelarne il contenuto: appunti di lavoro, misure, schizzi, conti del lavoro in Iran, la prima tappa dell’esilio di Zaher che in Iran era impiegato come fabbro e falegname dai sette anni, numeri telefonici in Italia e in altri paesi europei, probabili approdi della sua fuga, il conto dei soldi risparmiati e poesie imparate lungo il tragitto, canzoni con echi della tradizione poetica persiana.

Il viaggio di Zaher diventa un intreccio di voci e di espressioni, parole di bambini che conoscono la storia, frequentano un parco dedicato a Zaher proprio vicino alla loro scuola, parole di conoscenza del mondo afgano e di quello iraniano, della complessità culturale dell’Afghanistan che ha al suo interno l’etnia Hazara, quella di Zaher, ultima nella gerarchia sociale, diversa, umiliata e costretta a migrare, immagini evocative e suggestive e parole ancora della storia parallela di una salvezza. Zaher viene salvato dai bambini della quinta elementare perché imparano a comprendere le ragioni del suo viaggio, conquistano mezzi e curiosità per comprendere la sua cultura, ragionano, operano, accolgono.

Ci vuole la sapienza delle maestre che sanno ascoltare i bambini e per loro studiano le storie, attivano la curiosità sui mondi, entrano nelle pieghe delle culture e trovano il mezzo per proporle, coi disegni, le fotografie, i giornali, le mappe e i libri.

Nella Roveri

 

 

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Guido Mattia Gallerani, I popoli scomparsi (peQuod, 2020)

I popoli scomparsi - Guido Mattia Gallerani - copertina

 

E’ una silloge di poesia molto originale. Per le mie conoscenze, assimilabile solo ai testi in versi dell’antropologo Matteo Meschiari in Artico Nero, e peraltro con una notevole differenza di stile e di intenzionalità etica. I popoli scomparsi. Come dice l’autore nella brevissima prefazione non si tratta di paleontologia, né di storia – in quanto “scritta dai vincitori”, ricorda nella bella postfazione Mimmo Cangiano – e nemmeno di controstoria, eventualmente mossa dall’intento di recuperare cancellazioni o di invertire ingiustizie. Anche perché, ricorda saggiamente Gallerani, la frammentazione che ci è arrivata della loro vicenda “ci è restituita talvolta inventata”, in ogni caso rielaborata secondo concetti, bisogni, concezioni simboliche dell’attualità che la richiama. Nonostante venga dall’autore, forse per la ricongiunzione di questi testi alla memoria di visite da bambino al museo di storia naturale, non credo nemmeno si possa definire la silloge “come un album archeologico, un repertorio incompleto d’umanità diverse”. Sono quarantotto, con un quasi sotteso, ma previsto, quarantanovesimo – come vedremo –, i popoli scomparsi. Non si tratta di scomparse causate tutte da sconfitte e successive cancellazioni da parte dei dominatori, ma anche di genti, come i Vandali o gli Hyksos, che attuarono invasioni e stermini di altre genti, di cui forse a volte nemmeno ci sono arrivati cenni, e che poi per motivi più o meno conosciuti o ipotizzabili, scomparvero nel brulichio incessante degli incroci umani. Non compaiono distinzioni mai tra ‘buoni’ o ‘cattivi’ da cancellare, come potrebbero proporsi i Gog e Magog, tramandati quali generiche “entità maligne e sanguinarie” soltanto nella Bibbia e nel Corano, o come i misteriosi e micidiali invasori Hyksos dell’Egitto, di cui nessuno “seppe determinare/ l’origine e la preistoria”. L’autore invece si rivolge anche a popoli che scomparvero per disastri naturali, come quello di Santorini, quando “il Toba eruttò” e “portò/ cinque anni d’inverno/ sull’Indonesia e il Medio Oriente”, o come i Maya le cui “fatidiche piramidi”, prima ancora che dai conquistadores, furono vinte dall’esaurimento di risorse nelle loro “sovrappopolate in una cinta troppo stretta,/ terre incolte”. Ci sono poi popoli che non sono del tutto scomparsi, ma che sono stati cambiati, spesso sviliti, dall’evoluzione storico-sociale, come i Berberi, ormai non più “popolo di cavalieri”, “popolo a carovana”, ma popolo ridotto dietro ai banchi del commercio al dettaglio nei suq; o come i Marrani, che, dopo essere stati costretti a poco credibili conversioni, e quindi considerati e perseguitati come “traditori di due fedi”, furono cancellati come tali per essere, dall’Ottocento in poi, riportati alla loro vera etnia di ebrei, destinati solo allo sterminio. Compaiono poi popoli definiti, proprio come in un museo etnografico, da una posa, una gestualità, come i “Sioux a cavallo”, veri e propri centauri che fanno capolino dai fotogrammi di un film western (“nitrisce/agli spettatori”), se non fosse per quel presente che li immobilizza come “specie…/ ai blocchi di partenza” entro “la recinzione”, vera e propria arena da corrida, o, meglio, grande circo alla Buffalo Bill, con pubblico di scommettitori. Gallerani prende in considerazione anche non veri e propri popoli, ma gruppi, categorie, aggregazioni di uomini che ebbero in un certo tempo storico una propria netta connotazione ed un ruolo; come i corsari, i samurai, gli ussari, fino ad arrivare a fasce sociali come i “barilai”, spazzati via dalle “industrie/ dei vuoti in bottiglia”, o le geishe, metaforicamente in evanescenza come “volpi/ nella rossa pelliccia”, o i “Top Gun”, divenuti gli “occhi telematici dei droni”, o le “vittoriane”, che paiono uscire direttamente dai romanzi di Jane Austen. E ai confini col nostro tempo, ecco anche gli “Hipster”, che persa ogni passata autenticità di protesta, si limitano “dai lati delle strade” a caricare “il loro assalto di tristezza”, ormai “invisi alle masse, con le loro facce/ senza cravatte”, pontificando “al volo dal loro tempio/ di papillon e coni di barbe”. Piuttosto che contro la storia che cancella e dimentica i vinti, piuttosto che la presa d’atto di un destino di sparizione per chi non ha saputo accettare o riconoscere il nuovo avanzante, io credo che il poeta abbia altri bersagli alle sue frecce. Ad esempio questo non dare valore, nemmeno spessore di interesse alle culture che non sono state emergenti, che “non lasciarono sulla pietra/ riforme ed editti”, sommerse come gli Hyksos “nell’inesistenza di un torbido anonimato”; né che lasciarono, come il Neanderthal, alcuna “parola/ dalle sue vittorie, né leggenda/ per un’anima preumana e impaurita”, in tempi che erano “senza cronaca”. Ben oltre il rammarico per i limiti di una conoscenza storica e archeologica, l’attenzione di Gallerani mi sembra volta al vuoto della perdita, vuoto neutro, quasi un destino di dannazione maledetta: “Non ebbero epiteti al loro nome/ (…)/ L’onda increspata dell’immortalità/ non bagnò la loro fronte.”; “e così come vennero/ (…)/ senza flettere la linea del tempo/ … tornarono nel nulla/ da cui nacquero”. Io credo che si possa parlare di epos. Per la pluralità dei soggetti/popoli/gruppi, per le grandi gesta (che significano anche se solo “passi lenti nel bosco di canneti,/ tra bambù e bianchi crisantemi” che circumnavigano i pomeriggi); per i tumultuosi percorsi, i grandi orizzonti degli incroci umani (anche se solo a cerchio intorno alle doghe delle botti), tutti magistralmente tenuti dentro pochi versi, in una sintesi mirabile che, di per sé, mi pare poter definire proprio il cuore di questa poesia. Un epos, dicevo, e certamente tragico, ma più propriamente tragicamente, ontologicamente umano: gli scomparsi non sono primariamente vittime, ma esemplari plurali di un’umanità che così, alla scomparsa, è destinata. Il poeta scorre una vicenda di gente che da millenni compare, vive, agisce in piccolo o in grande –non importa, l’apporto comunque c’è e lascia segno lungo la teoria della specie, dice Capitini – e poi muore, e poi torna a inabissarsi nel neutro della specie, e più ancora del materico: chiamali ‘masse’, ‘emarginati’, ‘vinti’, ‘perdenti’, ‘sottomessi’, ‘ultimi’. Ma nei tempi lunghi dell’epos cosmico, anche i pochi vincenti, emergenti, sovrastanti, sovrani, geni, artisti, profeti e figli di dio scompariranno. Se c’è nella silloge una progressione dal passato più arcaico al presente, è anche per potere rappresentare, alla probabile fine dell’attuale Antropocene, gli ‘altri’ come “superstiti” alla vita, ancora tenacemente capaci di fare domani tra le macerie, di ballare, addirittura. Ma altri-da-noi, senza di noi, forse “al ricordo di noi”. Noi, temporaneamente ultimi nella trafila degli scomparsi. Parlerei di com-passione per la vicenda dell’umana specie, se non rischiassi di fuorviare il lettore, rispetto ad un testo assolutamente non lirico, non emotivo, neanche sottilmente ruffiano, quasi neutro, scabro, preciso nei dettagli e rapidissimo nelle sintesi, con rarissimi abbellimenti poetici. La poesia è soprattutto nel tamburo battente di un dominante ineluttabile passato remoto. Alla greca, aoristo che incarcera l’azione conclusa, quel passato remoto rimasto nella parlata sicula, che dà il senso del fato, del destino, dell’inamovibile accaduto. Anche quando prende forma di presente – comunque molto raro in questa silloge – che assume carattere apodittico, inchiodando gesti e immagini in una fissità fatale: “Il popolo più antico d’Europa/ risiede oggi vacanziero sui litorali di Biarritz/ (…) /questo linguaggio trasmesso/ non ricorda niente, se non frasi fatte/ d’animi perduti e penitenti, tutti agitati/ di verbi agiti al presente.”.

 

Milena Nicolini

 

 

 

 

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