NOTE DI LETTURA

foto di WildOne da pixabay

 

IL PARADISO NASCOSTO NEI PELI, a proposito di “L’amore dei lupi” di Alessandro Brusa, Giulio Perrone Editore, Roma 2021

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Il sesso fra maschi aspira alla sacralità perché si pone al di là della funzione riproduttiva e rinuncia volentieri ai cerimoniali di corteggiamento eterosessuali di cui è così vario il mondo naturale e l’evoluzione storica degli umani. Qui c’è sovrabbondanza di gesti e mosse, c’è strategia utile e futile per raggiungere lo scopo, là c’è l’essenzialità, il richiamo, l’impellenza, il residuo. Il residuo, come è testimoniato nei Veda, è scarto dall’ordine costituito e più di qualsiasi altra manifestazione rispecchia il divino.

“Il residuo è il ricordo, la perdurante presenza, l’insopprimibilità  del continuo. Qualsiasi ordine si stabilisca, in qualsiasi ambito e di qualsiasi genere, quell’ordine lascerà fuori di sé qualcosa – e dovrà lasciarlo se vorrà essere un ordine. Quel qualcosa che è fuori dell’ordine è il residuo, ma anche il sovrappiù. Residuo è ciò che viene escluso, sovrappiù è quella parte esclusa che viene offerta.”

(Roberto Calasso, L’ardore, p. 267, Adelphi, Milano

Attraverso questa dinamica di esclusione e di eccedenza amorosamente offerta, si muove Alessandro Brusa nel suo libro “L’amore dei lupi”. Di ardore lamentano l’estinzione le parole citate di  Fernando Pessoa, in apertura della sezione che ha come titolo  “Canzoni per un amor scortese”. La mistica atemporale  dei Veda deve fare i conti con gli enunciati dell’era tecnologica. Ogni tipo di codice, anche quello che regola i comportamenti più irregolari, è soggetto ora a una rigida sorveglianza normativa che passa attraverso i sistemi di comunicazione informatica. Siti di annunci per approcci rapidi piuttosto che passeggiate clandestine nei parchi notturni, altro che Jean Genet e la sua Divine. Se la storia nasce e si fa coinvolgente, c’è sempre il rischio di farsi tentare e il sovrappiù è diventato quello dell’ offerta di mercato. Il rapporto di coppia prevede momenti di frenesia assoluta e di tristezza profonda, ma poi ai lupi assassini per riaccendersi basta un lampo negli occhi, un annusare l’aria che l’altro fende, un fremito nella coda, se vogliamo rimanere al livello metaforico scelto da Alessandro Brusa. Il solco diventa fisicamente reale e attesta la necessità di riempire il vuoto fondativo dell’assenza con il gesto violento della penetrazione, al di là del raggiungimento del piacere inteso in senso canonico. È il rendersi disponibile ad ogni forzatura che canonizza, è il votarsi corpo e anima  all’eresia del fist fucking, nella preghiera dell’abbandono totale:

 

Ho pianto per uno strappo

ho pianto per aver preso         dentro di me

la violenza di una mano

e una coda

che mi fa cane e femmina

ho pianto      per aver guardato il vuoto

per averlo sentito

e averlo riempito             col dolore

dell’attesa che apre

e divora

 

ho pianto per aver sentito                     dentro di me

il mio destino

per averlo riconosciuto     negli occhi di uno straniero

che si chiama come mio padre

(L’amore dei lupi, p.50)

 

In questa poesia Alessandro Brusa tocca un punto sensibile che mi commuove e mi devasta, ben oltre l’eloquio dei versi, dunque, ancora una volta, come forza residuale. Nello straniero c’è la figura del padre e nell’incontro d’amore – la predestinazione edipica – è sempre adombrata la violenza. E la violenza originaria nasce proprio dal rifiuto d’amore del padre. L’incontro con lo straniero è sempre inizialmente una minaccia: incontri al buio, reali dark room, volti coperti da una maschera: il pericolo che io corro , in un vortice di impulsi incontrollabili, mi obbliga a pormi in una  disposizione di aggressione nei confronti dell’altro. Nello stesso tempo, quando un duo consolidato si apre a estranei, c’è un bilanciamento che sembra quasi ricostituire, anche nell’atto sessuale, un nucleo familiare riflesso.

È gioco di una piccola famiglia

Un Edipo corretto

E quel poco di violenza                che mi fa tirare il cazzo

come marmo

quando siamo gli uni tra gli altri

e gli altri è uno         che ti lecca la vita

 

e la nuca e le spalle

e le ascelle

e il buco del culo

 

e che quando ti bacia

senti il sapore dell’uomo che hai sposato

a cui stanotte rinnovi il tuo amore     anche così

 

( Dell’Amore Terno, p.63)

 

Nel rapporto col singolo c’è sempre l’offrirsi al mondo intero, un’apertura totale al dionisiaco. Carlo nell’episodio de “Il pratone della Casilina”, in “Petrolio” di Pier Paolo Pasolini, non seleziona uno o più partner, ma offre il suo corpo a tutti i ragazzi convenuti:

 

«Carlo stette a guardare cosa facevano Fausto e Gustarello che avevano detto che se ne sarebbero dovuti andare a casa. Invece se ne stavano ancora lì, fra gli altri un po’ in piedi e un po’ accosciati, in cima al loro montarozzo. Venti! Erano un piccolo esercito, e anche visti da lontano, ognuno di essi aveva la sua maschilità, il suo modo innocente di nascondere nei calzoni, per lo più calzoni americani, il proprio segreto [animale] non considerato da lui che una dote allegra e animale».

 (P.P.Pasolini, Petrolio, p.217, Einaudi, 1992)

 

Alessandro Brusa trova in un semplice cambio vocalico la parola di disordine  per questa disposizione orgiastica e il finale della poesia ribalta la chiusura erotica della coppia in una sorprendente accezione che, muovendosi verso il collettivo,  pare assumere un significato morale:

menade non monade             è la tua essenza

che come reta a strascico       mi cattura     tra la gente

di cui ti circondi    per una solitudine     che non è mia

 

[imparerò così i tuoi baci       dalle labbra dei popoli]

 

( L’amore di lupi, p.55, 4.)

 

Resta sempre l’annosa e stupida polemica dell’oscenità. Il poeta pone come epigrafe Marziale: “Lasciva est nobis vita, pagina proba” ed è vero che scrivendo di sesso si assiste a un’opera di ripulitura, ma come se le lenzuola del letto di casa venissero lasciate a girare nella centrifuga di una lavanderia a gettone. Ci si espone al giudizio voyeuristico degli altri consumatori che si siedono davanti alle lavatrici, mentre i loro panni macchiati giacciono ben riposti nella cassettiera con il mazzetto di lavanda.  Ma un lettore si può eccitare, ci mancherebbe! Io lo facevo sotto il banco di scuola leggendo “Tropico del Capricorno” di Henry Miller, d’altronde. Eppure, in queste poesie l’assunto anche se esibito resta privato e puro e l’eccitazione si muove a livello più profondo e diventa semmai commozione. C’è una rassegnazione alla perdita che ha insegnato Kavafis, la nostalgia spensierata di Penna e una crudezza piena di sgomento che arriva da donne come Sharon Olds.

 

nudi

sul letto     abbiamo appena cambiato le lenzuola

grigie e viola     ed il tuo gusto che di freddo mi accarezza

la pelle ed io resto qui

vivo

(Tredici corvi su lenzuola grigie e viola, p.73)

Il primo verso è “nudi” e l’ultimo è “vivo”, come se solo nell’elemento della naturalità si potesse trovare un ragione per aggrapparsi all’esistenza. Ne “L’amore dei lupi” non c’è distinzione tra slanci fisici e momenti sentimentali, c’è un’intimità che raggruppa ed eguaglia, tanto nella gioia che nella sofferenza. C’è un Eros quotidiano che tiene insieme negli angoli la fisiologia e l’attitudine spirituale.

Anche gli strumenti grafici della poesia sono utilizzati per indicare già visivamente pieni e vuoti corporali, distanziamenti, assenze, ritorni, sino alle parole che si fanno parti del corpo, strutture fisiche, ossa, quasi a ricostituire una nuova specie di cyborg, poetico ed erotico, un Roy che ha visto nella poesia e nell’amore cose che gli umani non possono neppure immaginare.

 

Ho dato alle ossa forma di parole malate       perché

quest’arte è solo un’altra parte

un altro vetro      a corrompere la carne            -in su

fino alla pelle-       a trovare corpi che possano vivere il mio

 

che perverso sono          e pervertito

ma perdonato          seppur dannato

 

( ibid., p. 87)

 

Un’altra soluzione stilistica, quando l’amore trova significato nella dialettica servo-padrone, è l’allineamento dei versi su due colonne, a significare una contrapposizione non solo tra individui, ma anche tra ribellione psicologica ed evidenza fisica, in un loop che parte da un cerimoniale di simulazione animale per arrivare alla constatazione innegabile dell’inconsapevole animalità umana.

 

Dici che devo mettermi         vai verso la cucina, apri la

a carponi,                               credenza, e ne estrai una

che ti eccita vedermi a          ciotola

quattro zampe                       che riempi d’acqua e

come un cane                         mi dici adesso bevi

                                               da questa!

 

sorrido, non dire cazzate         così tiro fuori la lingua ed

dico                                         abbasso il capo a leccare

non dire cazzate                      acqua come un animale

ma tu serio shhht!

 obbedisci! e mi

spingi giù la testa

verso la ciotola

verso quella finzione

ridicola che

di buon c’ha solo

che mi gonfia l’uccello

e non so perché

(ibdi.p.77)

In un momento storico come questo dove il corpo borghese eleva una trita lamentela per un reato di lesa maestà da parte della natura, mi piace trovare una poesia ideologicamente orientata a valorizzare le funzioni naturali del corpo, anche se resta aperta una dimensione morale di dolore e di macerazione. L’ immagine che mi rimane in mente è quella di un letto che diventa un relitto a cui aggrapparsi fortemente e a furia di stringersi in quel quadrato di stoffe, di manovre, di liquidi, si trasforma in un battello ubriaco, naturalmente, e poi in un transatlantico impavesato che procede verso il mare aperto.

Siamo persi in questo guscio

siamo sassi di mare aperto     e sabbia

di manciata sottile

 

mi ritrovo quando accarezzo lo scoglio

e al molo                  accosto la risacca al nostro letto

che è luna         di cielo vuoto

solo allora mi parli

mentre ti prendo la mano     che mi arriccio contro

come àncora

perché quest’onda non mi disperda

e mi porti con te                   e nel tuo vagare

( E giro in un cerchio diamante, p.20)

 

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Spendo una lode anche per la bella edizione, che mi ricorda un quaderno azzurro delle medie inferiori con i lupi sulla copertina e un segnalibro lupo che si può staccare. Inutile dire che il lupo è il mio animale totemico.

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Breve storia ad insegnamento dei posteri: difficilissimo convertire ( almeno per il sottoscritto) i testi poetici di Alessandro Brusa, così ricchi e variati formalmente,  in un articolo wordpress che è il sistema usato da casamatta e da mille altri blog. Questo sistema, come immagino molti altri, non apprezza la libertà formale e omogeneizza gli stili. Ho provato a fare copia e incolla dal pdf originario, ma il risultato finale ero un deragliamento totale del corretto allineamento delle poesie. Ho provato con gli screenshots ma il testo allargando il riquadro risulta poco leggibile e, dando troppo zoom, tagliato. Ho fotografato direttamente le pagine, ma anche in questo modo il risultato non è per niente soddisfacente. Mi scuso dunque sia con l’autore che con i lettori e spero comunque che la recensione serva, anche se in questo modo poco preciso, a rendere un’idea della composizione formale delle poesie. La cosa migliore è ordinare il libro.

 Paolo Gera

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L’enorme bellezza del necessario, a proposito di Massimo “Mamo” Valentini, Approdi(Il tempo circolare), Sensibili alle foglie, 2021

Approdi. Il Tempo Circolare - Mamo Valentini Massimo | Libro Sensibili Alle Foglie 03/2021 - HOEPLI.it

In Massimo Valentini militanza poetica e politica sono tutt’uno.  L’impegno non è astratto ( tipo campagne di sensibilizzazione change.org al riparo del proprio desktop), ma esercitato attivamente sul campo per esigenze di vita e di lotta. Mamo è stato operaio e rappresentante sindacale e ora, seguendo le ondulazioni della crisi economica, si ritrova ad essere un Naspi. Lo stato di disoccupazione non riguarda assolutamente la sua attività di scrittore e immagino che le scartoffie da compilare per ottenere il sussidio, avrebbe preferito riempirle con i versi che in quel momento gli passavano per la testa, come gli aironi trascorrono sulla sua casa nella campagna della Bassa Carpigiana, dove compagni sono gli animali, gli alberi, gli arnesi agricoli, le nuvole che passano sopra.

Non sono solito parlare della vita privata degli autori,  ma in “Approdi”, più che in altre raccolte poetiche, strettissima è la congiunzione fra il mondo dell’esperienza vissuta e quello della scrittura.  “Approdi” è molte cose: è un video con il tasto rewind tenuto costantemente premuto: tornando indietro affiorano volti indignati e rabbiosi, gesti di rivolta, fabbriche occupate, manifestazioni, operai stremati, ma sempre disubbidienti, immagini di una storia che ha segnato la fine delle rivendicazioni dei lavoratori, affossate nel nome di un’ipocrita salvaguardia degli interessi nazionali.  Ottobre 1980, sospensione di 24.000 operai Fiat,  il sindacato che nel nome di un nuovo modello di sviluppo si mette dalla parte delle esigenze economiche del paese e delle imprese. Un volere ca1ntare tutti insieme un inno di Mameli, in un’interpretazione falsa e stonatissima. Un “ce la possiamo fare”, esattamente come oggi, dove il plurale nasconde ipocritamente discriminazioni e interessi di parte.

Il settanta si butta nell’ottanta/ ma il mare è in secca/tirate giù gli ombrelli/e votate la sconfitta/la vota qualche quadro/peggio di Dorian Gray/si aumentano gli orari/ si tagliano gli sghei/ non basta alzare i pugni/ nel cielo di Torino/non servon maggioranze/ la resa è già firmata/ ritornano i guardiani/ritornano gli squali/ son cazzi di chi parte/ son cazzi di chi resta/ e il nemico lo sai/ marcia anche/alla tua testa

( Classe operaia, p.36-37)

Accanto a questa prospettiva storica amara, si fa solido come il tronco di un rovere e liquido come l’acqua delle lame un altro tempo mitico, che è quello della festa, del vino, del sesso, del libero incontro fra uomini e donne. Questo tempo non è riferito a un passato giovanile, ma è fonte da cui ancora abbeverarsi, perché come l’asino di Marrakech di Canetti, in fregola mentre sta per morire, la pulsione vitale esige sino alla fine  manifestazioni di ebbrezza, di erezione corporale, di abbandono alla totale dolcezza dell’amore fisico.

Arresi/in ombre d’acero/ tra nascite e morti/ l’infinito/ tracima di follia/ La natura si stira/ in uno spazio antico/Sotto le fiamme/ dei tramonti d’aprile/ si svela/ dolce/ la canzone del tempo.

(Arresi, p. 64)

A fare da raccordo meccanico ben oleato o piuttosto da innesto vegetale tra i momenti in cui il sangue scorre nelle piazze o pulsa stupefatto di fronte alle esigenze della natura, ci sono gli inserti che Valentini ha voluto titolare “Tempo circolare”, in cui i momenti del pubblico e del privato sembrano saldarsi non in una rinuncia postmoderna allo sviluppo storico e all’orizzonte di una ancora possibile rivoluzione marxista, ma piuttosto nel riportare nei versi  il senso forte dell’appartenenza e la fedeltà a una prospettiva utopica. Gli anni del calendario sono così sovvertiti  e il 1988 arriva dopo il 2005, ad esempio, in uno slancio in cui l’arida cronologia lascia il passo a una riflessione metatemporale, dallo spessore filosofico. Versi scritti in maiuscolo.

…QUANTA VIOLENZA SARA’ NECESSARIA/ PER STRAPPARE IL SEME DELLA CONOSCENZA/ ALLA GABBIA GELIDA DELLA MATERIA MORTA/ E RIPRENDERLA A NOI E AI NOSTRI FIGLI/ PER RIDONARE MANI ALLA VITA/ CHE PLASMINO LA CRETA/ CHE PIALLINO IL LEGNO/ CHE SOLCHINO LA TERRA/ CHE SIANO UN BRIVIDO PER I CUORI CHE AMIAMO/ CHE SIANO FRADICE DI LIBERTA’/ CHE ESISTANO!/ DURE TENERE DOLCI/ SENZA FILI CHE LE MUOVANO/ A CREARE SPORCHE DELL’ALITO DEL MONDO/ l’ENORME BELLEZZA DEL NECESSARIO…

( IL TEMPO CIRCOLARE (1985), P.67)

Ma la poesia civile, la poesia d’impegno non può essere altro – e Massimo Valentini lo dimostra in “Approdi” – che poesia di ricerca in cui il linguaggio deve scrostarsi delle parole del potere, le parole dominanti della società dei consumi e dello spettacolo, per veicolare una forma di comunicazione alternativa. Anche la poesia è lotta e la sua lingua non può che essere la manifestazione di una diversità anche affabulatoria, che si pone in maniera antagonistica  rispetto agli idola tribus e agli idola fori. La lingua scelta da Valentini è consapevole della tradizione letteraria, ma anche quando usa strumenti retorici che paiono consunti, anche quando anaforizza e metaforizza, lo fa attraverso un’angolazione mossa e sorprendente.

mio padre è un albero/radici nervose/ hanno terra da muovere/ fin dove si può/ quando insieme /davanti alla partita/perdevamo il senno/ a guardarlo/pareva/ una cometa laica/ mio padre è un albero/ pare che fumi/ nei mattini di bruma/ quando l’erba respira/ nella nostra terra.

(Pà, p.58)

Nella poesia c’è il linguaggio della durissima cronaca documentaristica ( “I bambini di Kabul”), quello dell’attenzione stralunata al paesaggio che ricorda Dino Campana (“Chi sa sa”), quello ribelle e scanzonato, come Esenin e Prévert, quando l’operaio luddista  inceppa i macchinari per godersi il tempo liberato:

ma non ero più lì/ fischiettavo sul muretto/ neanche mi videro/ i raggi cancellavano i contorni/ ridevo pensando a quei versi lontani/ “compagno sole/ non trovi che è una coglionata/ regalare una simile giornata ad un padrone?”

( La zeppa, p.61)

Infine, la poesia di Massimo Valentini ha un’aspirazione polifonica: la voce di un uomo non nasce con lui, ma è la fusione di tutte le voci che gli sono state intorno nelle esperienze che ha vissuto. La voce di un uomo, la voce di un poeta per essere sincera e credibile, non può essere individuale, ma rappresentare il canto  di un coro, non di quelli immobili e rigidi su un palco, ma  di quelli che come cortei si snodano tra le piazze e gli alberi, tra le vie e gli argini del fiume. E tu nella marcia non vedi volti anonimi accanto, ma quelli sorridenti  di Clà, Sofi, Agnes, Carmen, Giorgiana, dei compagni della Comune di Migliarina, di Jawed, Bilal, Kaled, Nesar, Rabia, Arif.

 

Paolo Gera

 

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Dizionario critico della poesia italiana 1945-2020, a cura di Mario Fresa, Società Editrice Fiorentina, 2021

 

Dizionario critico della poesia italiana. 1945-2020 - copertina

 

Il dizionario critico della poesia italiana è un lavoro che cerca di dare un quadro complessivo della poesia italiana degli ultimi anni, nella formula appunto di sintetiche voci critiche dedicate agli autori, dandosi come confini temporali il 1945 come data di prima pubblicazione e il 1979 come anno di nascita degli autori selezionati. Questo porta a considerare autori che abbiano già una produzione di rilievo alle spalle, un contributo riconoscibile sulla scena poetica contemporanea, senza però retrocedere lo sguardo fino alla produzione primo-novecentesca. Ovviamente, come dichiara lo stesso curatore, ogni selezione rischia di essere di per sé stessa imperfetta, ma ciò che conta è la scelta da parte del curatore di coinvolgere nel processo di selezione e di segnalazione numerosi altri autori, critici, esperti di letteratura, in modo da rendere la scelta il più possibile obiettiva e condivisa, volta all’inclusione, oltre che dei nomi più noti e accreditati, anche di autori che possono vantare una minore visibilità o che sono stati rimasti nell’ombra ingiustamente nel corso degli ultimi anni, o ancora dimenticati. Tra i redattori delle voci del dizionario, oltre al curatore Mario Fresa, leggiamo i nomi di Maurizio Cucchi, Maria Borio, Plinio Perilli, Luigi Fontanella, Tiziano Rossi, Sebastiano Aglieco, Rita Pacilio, Matteo Bianchi, Davide Rondoni, Marco Corsi, Monia Gaita, Enzo Rega, Matteo Zattoni, Mary Barbara Tolusso, Eugenio Lucrezi, e numerosi altri a garanzia della qualità complessiva del lavoro.

Un’opera che, certamente, fa discutere e destinata a far discutere in merito alle scelte effettuate, il tutto a dimostrazione del fatto che l’attenzione che raccoglie è significativa, la sua presenza nel dibattito culturale pregnante: l’obiettivo è fornire uno strumento di riferimento e di consultazione per tutti, in modo da offrire un orientamento alla lettura a chiunque voglia approfondire la poesia contemporanea, che sappiamo tutti essere troppo trascurata, ai margini del mercato editoriale e, di conseguenza, della curiosità dei lettori. Un dizionario che è da intendersi come corpo vivo, opera in fieri e non consolidata una volta per tutte: dà un’istantanea sulla situazione corrente, ma – crediamo e speriamo – non mancheranno nel tempo revisioni, aggiornamenti, integrazioni che potranno rendere il lavoro sempre più completo e ricco di voci.

Il dizionario critico si contraddistingue per la cura riservata alla compilazione delle singole voci, per la ricchezza bibliografica di riferimento, per l’estrema capacità di sintesi con cui i redattori riescono a condensare i motivi, i temi e le scelte stilistiche dei diversi autori (in sostanza la loro poetica). Ne emerge un quadro notevolmente composito e multiforme in cui si ha davvero come risultato finale uno spaccato obiettivo e plurale delle diverse voci poetiche della contemporaneità, senza la presunzione di voler essere onnicomprensivi o, peggio ancora, ecumenici: ogni lavoro critico impone scelte di merito e di campo da parte del curatore e dei redattori coinvolti nel progetto, le cui competenze e onestà intellettuali, nel nostro caso, sono chiare e evidenti, in accordo ai criteri espressi nella nota introduttiva al lavoro.

Questo lavoro di Mario Fresa è un’importante testimonianza che si contraddistingue per la coerenza e per l’accessibilità, ponendosi credibilmente come base di partenza per i successivi approfondimenti sugli autori e le opere, che i lettori, invogliati dalle note critiche del dizionario, vorranno intraprendere: non quindi punto di arrivo, ma strumento e tramite per una fruizione consapevole e libera della poesia, questa splendida sconosciuta per il lettore medio.

Fabrizio Bregoli

 

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Elisabetta Furini, Cornelia Browne, Rossopietra Edizioni, Castelfranco Emilia, 2021

 

Cornelia Browne - Elisabetta Furini - Libro - Edizioni Rossopietra - | IBS

 

Più che un libro di poesie, è uno spettacolo di parole, che si snodano secondo modulazioni che attengono ai ritmi del canto, alle metamorfosi della voce, alle tonalità stesse del silenzio, in fratturazioni dello spazio e del tempo che si inventano sulla pagina attraverso i segni maggiori o minori d’inchiostro, la fisica poeticità del disporsi in calligrammi delle parole, le spaziature metamorfiche; all’interno di una intelaiatura di segni-sogni-disegni che completano per il lettore lo spaziotempo della vicenda di Cornelia. Che nasce, muore, rinasce, si perde, si ritrova, si trasforma, cade, risorge, per quei tre regni che di fatto comprendono tutto l’universo e tutto il tempo e tutto il reale e l’irreale e la favola, quella favola che sta dentro a tutto. Domina la notte e il sogno, gravidi di presenze, concreti eventi, realtà meta e sub e iper. Con potenti e grandiosi risvegli, vitalissimi e densi del piacere di esserci, ritrovarsi, riconoscersi nel cambiamento. Difficile definire il genere. Anche non necessario, in effetti. E difficile immaginare i destinatari: i ragazzi adolescenti intenti a sperimentare soprattutto i propri sogni? La gente matura che ha eroso i suoi, ma che di sogni ha bisogno? I vecchi che riprendono a sognare follemente, come a volte fa Cornelia, così vicini come sono all’altrove? Bene ha fatto comunque l’Editore ad accogliere questa autrice dai molti nomi nella collana di poesia. Se infatti la poesia ha come uno dei suoi caratteri quello di varcare confini impossibili alla razionalità del quotidiano vivere, certamente questa scrittura ha spesso la capacità non solo di muoversi per mondi altri rispetto al concreto comune, ma anche di aprirsi ad una comunione universale che fa molto bene, proprio come una di quelle tazze di tè che Cornelia tante volte offre nel libro.

Elisabetta Furini si occupa attivamente di teatro, come attrice, musicista e cantante; lavora in importanti collaborazioni con istituzioni culturali, scuole statali, residenze per anziani; tiene laboratori e corsi di teatro,  di vocalità e di yoga; crea, produce e interpreta spettacoli musicali. Ha pubblicato con Rossopietra nel 2020 Elì Honfleur, “un piccolo diario di viaggio fisico e onirico illustrato”, titolato con uno dei suoi nomi complementari.

 

Milena Nicolini

 

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L’ARTE DELLA CICATRICE di Massimo Parolini, su Claudia Piccinno, La nota irriverente , Il cuscino di stelle, 2019

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“Dove si annida quel dolore/ che squassa lo sterno?/ Riemerge improvviso/ dagli abissi della memoria/ dilania l’attimo consapevole/ dell’irrimediabilità della morte./ Nessun’ altra sostanza mi resta/ se non l’amore dato e ricevuto./ E’ il solo antidoto a ogni velenosa/ deflagrazione…/ Così raccolgo i cocci e faccio un vaso,/ lì custodisco la forza di proseguire/ il cammino./ Un carburante rinnovabile/ fuoriesce dal vaso risanato,/ nessuna epigrafe ci svela il segreto/ di quanto coraggio ci impone la vita” (Il solo antidoto). L’antica pratica giapponese dello kintsugi o kintsukuroi  (composta da “kin”, oro e “tsugi”, riunire-riparare)  evidenzia le fratture, le impreziosisce e aggiunge valore all’oggetto rotto.  Essa prevede l’utilizzo di un metallo nobile -oro o argento liquido o lacca con polvere d’oro-  per riunire i pezzi di un oggetto in ceramica frantumato, valorizzando i punti di sutura, impreziosendo le “cicatrici”, rendendo così l’oggetto riparato  una realtà unica nella sua fragilità ricomposta.  Claudia Piccinno usa la poesia con questo scopo, come evidenzia nella poesia sopra trascritta, tratta dalla sua ultima raccolta  La nota irriverente  (Il cuscino di stelle, pg. 72, 2019). La memoria è una risacca che deposita dolore, in questi versi, e la poesia è fatta di pagliuzze preziose che possono ricomporre le lesioni dell’anima. I frammenti di un discorso amoroso ininterrotto (“Resta di quei giorni/ una discarica di promesse,/ differenziata raccolte di parole,/ vuoti a perdere senza rimborso./ In fila per l’inceneritore/ riconosco le iniziali del tuo nome”, L’ipotesi di te) attraversano la sofferenza della disillusione (“Allo sconcerto reale/ subentrò la nitida certezza/ della tua inconsistenza/ della incompatibilità/ tra immaginario (il mio)/ e vuoto d’anima (il tuo)”, La pena del contrappasso),  giungendo fino al livore scevro da possibilità di perdono: “corteccia vuota rimarrai/ dove nessun usignolo farà il nido./ Ho recitato la requiem eterna tra di noi/ e più non conta in quale girone precipiterai./ La pena del contrappasso/ in quest’inferno affronterai”, (ibid.), “Possa bruciare/ nel tuo fuoco fatuo/ nelle menzogne/ che racconti a te stesso/ nel fumo che vendi/ al migliore offerente” (Ed io ti maledico). Gli affetti famigliari (i cari: la madre terminale, il padre riemerso negli agrumi del dono),  la compassione sodale per le donne vittime di femminicidio (vedi la giovanissima Noemi in Addio stellina mia) ridanno forma di speranza alla donna delusa che si possa superare la “perversa umanità” e restituiscono possibilità di preghiera e di fede nel bianco di una luce che possa risollevare dal buio (Bianco il foglio), divulgatrice di “accenti di speranza” in un reparto oncologico (La nota irriverente). E nella preghiera che nasce dal dolore la poetessa si rivolge a Dio: senza remore, senza paure di inganni, bugie o maschere, si affida, con semplicità fanciulla, al Padre che non può mentire o rifiutare: “Amami nella mia imperfezione/ e nei miei errori./ Amami nella misteriosa inquietudine/ che si avviluppa alle mie radici./ Amami Dio/ in ciò che ho di buono/ e ancor più in ciò che ho di sbagliato/ e liberami da un futuro remoto ingiusto e/ immeritato./ Amami nella rabbia che non trasformo in/ compassione,/ nei gesti che ho frenato/ per non oltrepassare la soglia verso la follia./ Amami e restituiscimi il candore di chi crede al/ futuro,/ amami perché io non perda lo stupore del/ presente./ Amami perché io faccia pace col passato./ Amami Dio/ perché nella beatitudine del tuo infinito io/ riposerò” (Amami Dio).

Massimo Parolini

 

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Stefano Baldinu, Boghes (Voci), Collana AltreLingue, puntoacapo, 2021

Boghes. Voci - Stefano Baldinu - Libro - Puntoacapo - | IBS

 

La raccolta di Stefano Baldinu comprende poesie scritte in lingua sarda, impiegando in sostanza tutte le principali varianti linguistiche dell’isola, tanto da dare uno spaccato molto rappresentativo delle diverse forme espressive in cui la lingua sarda può prendere forma, le sue varietà, le sue potenzialità stilistiche. Si tratta di una raccolta poetica, come testimoniato dalle note introduttive ed esplicative, per la quale l’autore si è trovato impegnato in uno studio approfondito della lingua sarda, avvalendosi di tutti i principali strumenti disponibili: la tradizione orale della sua famiglia, le documentazioni scritte e registrate in suo possesso, i vocabolari, le fonti on-line; siamo di fronte a un libro che, aldilà dell’aspetto propriamente letterario, è innanzitutto un documento sociale e culturale che vuole dare spazio alle “voci” (come dice il titolo) di questa terra, così bene riconoscibile ma altrettanto variegata e diversificata nelle sue espressioni verbali.

Il progetto di questo libro però non ha nulla di nostalgico, ma incarna coerentemente lo spirito della poesia neodialettale in cui si inserisce a pieno titolo: il dialetto, in questo caso in senso ancora più stretto vera e propria lingua, rifugge dalle tentazioni folcloristiche vernacolari per farsi strumento di poesia a ampio spettro, capace di rappresentare le istanze della contemporaneità, trattare con un linguaggio vivo e non accademico i temi che sono propri della poesia in senso lato, della più frequentata poesia in lingua. Nonostante la difficoltà evidente che può incontrare chi non conosce la lingua sarda, il consiglio è di confrontarsi con i testi nella loro lingua originale, farsi attraversare dai suoni e dalla musica delle varianti linguistiche, per comprendere integralmente la portata del lavoro di Baldinu, che la traduzione, sempre a sua firma, può rispecchiare, ma – inevitabilmente – più sul piano del senso che della forma. L’autore infatti dà un’impostazione che prende a riferimento i movimenti di una sinfonia (ouverture, quattro tempi, conclusione), a dimostrazione della importanza che viene assegnata alla ricerca sul suono, sul ritmo: elementi evidenti nella lingua originale. Ne diamo un esempio con una poesia scritta in logudorese:

 

Peraulas in atunzu

 

Est solu chijina de luna su silentziu

chi si accadet pius nudu

ultres sas rosas isasciadas dae sa tempesta

e s’appittu infinidu de unu chelu

chi avantzat subra sas pazinas de bidru

serradas a unu pibione de pioa isprémidu

dae sos ramos.

 

E si esseret ancu sa boghe tua

a toccare cun una punta de timidesa

custa òstia d’infinidu, sa lughe chi rodulat

subra sa riba de asfaltu diat essere

una sonniga chi mudat su tempu

de sas faulas in veridade.

[…]

 

La parola poetica di Baldinu si concentra soprattutto sul mondo degli affetti, delle relazioni personali, a conferma di una poesia che vuole rapportarsi intimamente con la vita, in tutte le sue declinazioni, con una particolare attenzione agli emarginati, agli esclusi, a chi ha difficoltà a far sentire la propria voce, e di cui la poesia si rende testimone, veicolo necessario. Molte poesie ricorrono a un verso lungo che lascia intendere un andamento narrativo, coerente con il bisogno di farsi narrazione in versi, ma l’uso della metafora e il ricorso ad analogie spesso molto immaginifiche danno un’impronta fortemente lirica al lavoro che risente di influenze che sono ascrivibili soprattutto alla poesia spagnola e sudamericana, del secolo scorso in particolare, agli autori che Baldinu più ama e ha maggiormente frequentato; queste influenze stilistiche e formali vengono rielaborate in un periodare articolato, spesso ipotattico, che genera un movimento magmatico nella dizione poetica capace di moltiplicare e stratificare le immagini, astrarsi dal dato concreto e biografico per rendere la lingua allusiva, evocativa, spesso attraversata da un’indeterminatezza, da un mistero che bisogna saper cogliere. Anche il paesaggio, per lo più idealizzato o comunque pervaso da evidenti simbologie, svolge un ruolo importante nella poesia di Baldinu, diventa strumento per il dialogo con l’interiorità, per carpire quella dimensione esistenziale in cui l’uomo possa riscoprirsi, relazionarsi con il silenzio, con l’universo, con l’infinito (termini, questi ultimi, che ricorrono con una certa frequenza nel libro): “così sono qui, anche io, dinanzi a questa ortografia d’universo / dentro questa tempesta di note che mi punge le dita / senza sfiorarle solo per intuire dalla desinenza dei tuoi passi / il senso del nostro silenzio”.

La poesia di Baldinu, ricca di temi e di ispirazioni all’interno di un libro che risulta coeso soprattutto dal punto di vista delle scelte formali e stilistiche, rappresenta un interessante intreccio di poesia lirica, nella sua matrice più profonda, e di ricerca sul linguaggio, di indagine sulle potenzialità espressive di una lingua, come quella sarda, della quale riesce a rappresentare bene la forza, l’autenticità, sapendosi muovere, Baldinu, con equilibrio fra tradizione e modernità.

Fabrizio Bregoli

 

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Popoli sovrani, il valore della persona indigena,  Libreria Editrice Fiorentina, 2012

Popoli sovrani. Il valore della persona umana indigena - copertina

Raccolgo in dono un libro che, a prima vista, potrebbe essere datato, essendo uscito quasi dieci anni fa dalla Libreria Editrice Fiorentina, come raccolta di articoli dell’Ecologist, con il titolo: Popoli Sovrani, il valore della persona umana indigena, con introduzione di Giannuzzo Pucci.

In realtà, l’opera mantiene vivissimo il suo carattere allarmante e la sua lettura documentata, più che mai attuale ai giorni nostri, ancora immersi in questa tempesta globalizzata Covid. L’obiettivo dell’antologia dei saggi è rovesciare l’interpretazione progressista evolutiva, focalizzando un Occidente grasso, sempre più votato verso un’ottusa e vertiginosa distruzione del pianeta, non solo ecologica ma anche culturale, linguistica, sociale di quei popoli indigeni, la cui identità è sicuramente opposta alle fondamenta della nostra società liberista e capitalista.

E’ utile per qualificare l’opera, citare alcuni degli autori ospitati: Edward Goldsmith, fondatore dell’Ecologist nel 1969, celebre per i suoi contributi scientifici soprattutto nelle tematiche ecologiche; Bruce Chatwin, Vandana Shiva; Francois Partant, Mohandas Karamchand Gandhi; Geraldo Reichel-Dolmatoff, antropologo che ha approfondito lo studio delle culture della foreste tropicale, in particolare dei Tucano in Colombia; Roy A. Rappaport, antropologo di cui si ricordano soprattutto i suoi studi sui Maring della Nuova Guinea.

Voglio ricordare le parole di Gandhi tratte dal 6 capitolo di Yeravda Mandir nel 1932:

La civiltà, nel vero senso del termine, non consiste nella moltiplicazione, ma nella volontaria riduzione dei bisogni. Solo questo porta alla vera felicità e appagamento, e accresce la capacità di servizio.

Anche con queste tratte da Young India del 1921:

Se mi scoglio contro la vita moderna fatta di benessere dei sensi e spingo tutti gli uomini e le donne a tornare alla vita semplice incarnata dai chakra, lo faccio perché so che senza un ritorno intelligente alla semplicità, non c’è scampo al nostro declino verso una condizione più bassa della brutalità. 

 

Si aprono capitoli dentro cui incontriamo le dinamiche e le radici di culture altre, cercando sempre di correggere il punto di vista popolare dell’individuo occidentale che interpreta la sua condizione come migliore. Le parole di Jerry Mander rovesciano la nostra superbia cristallizzata:

E’ facile per un occidentale immaginare le difficoltà materiali della vita dei popoli primari e dimenticare che una vita nomade o di pastorizia con pochi beni, può essere, e spesso lo è, una vita felice.

 

 

Le comunità di questi popoli hanno un complesso equilibrio interno e nei confronti della natura. Ciò permette una stabilità di ecosistema, contrariamente al nostro. Entrarvi  con occhio rispettoso sollecita  la nostra comprensione e riflessione sulla nostra cultura.

Il libro è corredato da fotografie in bianco e nero.

 

Anna Maria Farabbi

 

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Elizabeth Barrett Browning, Di libertà e d’amore, sonetti dal portoghese, traduzione Laura Ricci, Vita Activa, 2020

Di libertà e d'amore • LetterateMagazine. Scritture Politiche Culture

L’opera si apre con due fotografie in ovale: Elizabeth Barrett e Robert Browning.

L’appassionata e agile introduzione di Laura Ricci ci introduce alla forte personalità di Elizabeth, con sintetiche e necessarie contestualizzazioni storiche e culturali, riferimenti e corrispondenze, oltre che alla sua biografia.

Note all’opera, una bibliografia essenziale, e altre fotografie soprattutto relative a Casa Guidi in Firenze, dimora dei due poeti dal 1847 al 1961, completano il lavoro.

L’impronta della poeta inglese ha l’energia di attraversare, perfino dominare, la sua sofferente condizione di salute, dovuta sia allo stato fragilissimo dei suoi polmoni, sia per la sua spina dorsale compromessa gravemente da una caduta da cavallo. Tra letto e divano, nella prima parte della sua vita (1806 1861), si nutrirà di studio, poesia, carteggio con i principali letterati del tempo, tra cui Emily Dickinson, Nathaniel Hawthorne, Edgard Allan Poe tanto per citare qualche nome. Isolata nella sua stanza, ha accanto a sé il cagnolino Flush, reso celebre da Virginia Woolf. La sua notorietà di poeta uscirà perfino dai confini inglesi raggiungendo gli Stati Uniti.

La presenza di Robert Browning  irrompe nella vita di Elisabeth. Lui, poeta raffinato, sensibile, innamoratissimo, suo assoluto ammiratore, costituirà  con lei quella condivisione artistica e affettiva che si protrarrà per tutta la vita. Malgrado il divieto del padre di lei, i due si sposano e fuggono a Firenze assieme alla fedele cameriera e all’adorato Flush. Casa Guidi, in Piazza San Felice, ora è un museo. Elizabeth, qui, visse attentissima alle vicende risorgimentali italiane,  scrivendo. Soltanto dopo la nascita di suo figlio, rivelò a Robert i suoi sonetti, dentro cui la tematica d’amore è impregnata di istanze politiche, femministe, valori civili. Riconoscendo la qualità maestra di una cultura imprescindibile, segnata da personalità come Shakespeare, Sidney, Spencer, Donne, Milton, Tennyson, Elizabeth rivela fin da subito originalità stilistica. Il suo canzoniere, come scrive Laura Ricci nella sua introduzione, non ha stretti modelli di riferimento.

Il titolo dell’opera allude a una serie di sonetti del XVI secolo del poeta Louis Camoens, carissimo a Elizabeth, e a una ballata dei Poems molto amata da Robert, Catarina to Camoens, ispirata all’amore della giovane Catarina per il poeta portoghese.

La casa editrice, il cui nome evoca, non casualmente, l’opera di Anna Arendth, sorge dalla Casa delle Donne di Trieste,  e lavora da anni nella e per la scrittura di donne contemporanee e del passato. Vita Activa è diretta da Gabriella Musetti.

Anna Maria Farabbi

 

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Antonietta Potente, Scrutare il Mistero, Paoline 2021

 

Scrutare il Mistero. Riflettendo sulla Trinità - Antonietta Potente - Libro - Paoline Editoriale Libri - Ritrovare le radici | IBS

Ho letto un libro di poche pagine sulla Trinità. Lo ha scritto Antonietta Potente, teologa domenicana, per vent’anni docente nelle università della Bolivia. Mi piace ascoltarla; ci sono interventi suoi sui canali Youtube e spesso raggiunge il Giardino delle Beghine di Mantova per incontri, scambi, dialogo.

Qui il tema è il più lontano possibile dalle riflessioni che più frequentemente facciamo in rapporto al lavoro, alle relazioni, agli impegni; è un volo sulla dottrina trinitaria che atterra nella pratica politica. Questo il centro dell’interesse, superata la difficolta tra rivelazione nel tempo, comprensione delle Scritture e interpretazione. Due testi della tradizione giovannea, il prologo del quarto Vangelo e una parte della prima lettera di Giovanni sono i punti da cui osservare la “triunità” del divino senza frantumare il mistero. Una incessante attività che richiama le terzine dantesche: Guardando nel suo Figlio con l’Amore/ che l’uno e l’altro etternalmente spira,/ lo primo e ineffabile Valore/  quanto per mente e per loco si gira/ con tant’ordine fé, ch’esser non puote/ sanza gustar di lui chi ciò rimira (Paradiso, X, 1-5).

Dante vede il mutuo amore da cui ha origine l’universo. È un movimento circolare, non chiuso in se stesso che lascia spazio a tutte le creature e restituisce temporalità ed eterno, visione e atto, presente aperto al futuro. “Stare in questo movimento, significa essere iniziati all’uscita da sé. L’uscita da sé alimenta il circolo esistenziale della vita”, perché, come suggerisce Maria Zambrano, si esce dall’ “angusto recinto” in forza dell’amore, verso tutto ciò che ci circonda, verso altre inquietudini d’amore, di giustizia, di verità. Questo l’atto politico, il nutrire l’immaginazione creativa, riconoscere la passione d’amore che è in noi e che guarda non solo all’umano, ma a ogni essere coinvolto nel mistero, terra, acqua, minerali, piante…

Nella Roveri

 

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