LEONARDO SINISGALLI (3): COSE FANFAROSE INTORNO ALLA POESIA di Paolo Pera

(immagine di Paolo Pera, Autoritratto,”Il gemello siamese”)

Mamma mia, che compito indescrivibile mi è stato dato dagli amici Paolo Gera e Fabrizio Bregoli: compito che ho dovuto rimandare perché profondamente duro, quasi impossibile. Parlare del proprio (già questo vocabolo mi infastidisce, che cos’è mio?) intendimento di poesia, partendo da alcune note riflessive di Leonardo Sinisgalli. Che posso dire? Come dirlo, poi? (Vengo talvolta incolpato d’usare sovente quest’espressione, «Dici spesso: “Non so come dire”, ma poi dici sempre bene»). Sarà una posa? No, è che certe cose non sono traducibili in linguaggio: esse sono pari alla percezione dell’assoluto, di Dio (anche solo come concetto, sia chiaro). Se non si può dire quanto è pensabile figuriamoci se è possibile con quanto vive, quanto è descrivibile: ciò, essendo una mera distorsione individuale moltiplicata per ogni vivente, benché dicibile non significa granché fuori da chi la dice e dai pochi che – mediante il linguaggio di questo – la intenderebbero. E tutti gli altri? «Guarda che ciarliero inconcludente!», sì… Ora tento di dire davvero, promesso.

La domanda da porsi per iniziare è: che dovrei dire qui? Anzi, che ci faccio qui? Mumble Mumble, parrebbe una questione filosofica… Lo è, Poesia è dire in simil-canto una riflessione e/o una cosa veduta coi sensi. Sbaglio? Quando Poesia non è? Chi lo sa è bravo; andrebbe forse chiesto a un crociano, chissà, o forse a un crociato… Sta di fatto che quando manca di ritmo, non a tutti sembra evidente, la “poesia” decade nella prosa (ma prosa brutta, s’intende) … Eppure, i più sapienti tra i poeti “non ritmici” direbbero – giustamente! – che se il ritmo si sposta dal linguaggio al pensiero che il linguaggio veicola la cattiva-prosa-poesia ha comunque ritmo. Ma non solo, le liberalizzazioni ultimo-novecentesche sposterebbero il discorso pure sul Concetto generale che sta a monte del fare poesia d’un qualunque ipotetico poeta-filosofo. Insomma, non si finisce più. E siccome non si finisce, o si trancia di netto la questione dicendo – come fanno certuni –: «La Poesia è solo lirica, insieme a cose vagamente simili», o si “menefregheggia” dicendo: «Tutti hanno diritto d’esistere, tutti hanno la possibilità di essere poeti: Capitale docet», ma è possibile pure fare gli “estremisti dell’altra parte”, dicendo: «Tutto è Poesia, anche il cane che fa plin plin!», ma la miglior cosa – a parere di questo Pera, s’intende – è non porsi (ossia non porsi più) la questione. Che cos’è poesia? Talvolta è la voce della Musa nella psiche, in forma di canto; altre volte è una più bassa ispirazione a costruire qualche archibugio linguistico à la Sanguineti, oppure una vomitata di immagini assurde – e talvolta macabre, ma giocherellone – in forma di “scrittura automatica”. Per me, fiume in piena (dicono) e/o sbrodolone-grafomane-iperproduttivo-poiché-giovane, la Poesia è tante, troppe cose… eppure non bastano! Nel senso che non sono sufficienti perché siano dette poesia da tutti, né bastano al sottoscritto – critico letterario, e stroncatore!, di sé medesimo – ché troppo desidera sempre e solo ispirazioni liriche, producendo invece filastrocchette paradossali che lasciano i più confusi e i meno con un senso di presa in giro che non sempre viene colta con spirito goliardico… Ho infatti il cassetto pieno di lettere minatorie, sono più bersagliato di un virologo in tempi di Covìddi dispiegato. Comunque sia è mia premura usare tutt’altro comportamento con l’opera altrui: difatti ho a priori, benché talvolta sia vastamente smentito, il pregiudizio che chi tenta la poesia abbia in genere qualcosa di para-geniale da dire… Mi è di immensa gioia trovare infatti in alcune sillogi barlumi di assoluta visione, di assoluto pensiero, di assoluta (ma anche parziale) originalità. Altre volte invece l’occhio cade, quasi con costrizione, su “abortini da passeggio” – come direbbe Mario Marchisio, che mi è stato maestro – creduti meritevoli, peraltro, di tante lodi… Talvolta più per l’uomo/donna (o uomo-donna) che l’ha scodellato che per l’opera in sé. La mia generazione presenta infatti, per fretta e poca auto-comprensione, – ma pure per poca ispirazione vera (di certo!) –, questa fecondità di abortini da passeggio… Essa è come un’ape regina in costante produzione d’abortini, si spera però – ma sarà logicamente così – che invecchiare le doni una capacità creativa più strutturata. È tanto strano vedere nei più grandi, i “poeti maturi”, una tale cura per certi forgiatori d’abortini… Essi sembrerebbero quasi incapaci di distinguere una bellezza compiuta da qualcosa di ancora informe, di nato incompiuto in quanto acerbo, ma non mi è possibile essere tanto critico con chi – tecnicamente – dovrebbe sapere, l’unica possibilità rimanente è la strada dell’incoraggiamento: incoraggiare il giovane, quello sì è bello (quando è giusto farlo)! Comunque sia, pecco già di troppa presunzione parlando tanto male di chi viaggia intorno ai miei stessi anni, se me lo permetto è perché – quasi come un piccolo Montale vecchio – mi sento irrimediabilmente stanco, la poesia in casi di così assurda miseria interiore diventa rifugio, ripiego per completare l’estraneazione da quella realtà che è già parecchio straniante di per sé… basta guardare l’esaltazione per la “cattiva poesia”, correlata di indifferenza per quella più o meno buona, per sentirsi quasi sbagliati, e domandarsi: «Dove ha errato Dio nel farmi incapace d’apprezzare cose tanto banali, tanto mal scritte?», ma infine – siamo seri – “Lui” che ne può?

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Paolo Pera è nato ad Alba il 22 giugno del 1996, diplomato in Arti Figurative è ora studente di Filosofia presso l’Università degli Studi di Torino. Nel 2012 esce il suo primo romanzo; nel 2020 esordisce in poesia con La falce della decima musa (Achille e La Tartaruga); nel 2021 pubblica Pierino Porcospino (Gian Giacomo Della Porta Editore), rilettura dello Der Struwwelpeter di Heinrich Hoffmann; sempre nel 2021 esce, per Ensemble, Pietà per l’esistente. È anche fumettista, pittore e critico letterario.

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