“L’immobilità dello scriba è la sua libertà, la sua vittoria sul caos. Lo scriba è attento a guardare e riflettere. Non scrive per divertirsi: si taglierebbe le mani. Non scrive per impegno. Scrive quasi controvoglia sul tavolo dove mangia. Mischia aceto e inchiostro, cenere e sale. La sua cella è stretta come l’abitacolo del ciabattino che sopra le suglie le lesine lo spago la pece apre il cartoccio di sarde.”(L. Sinisgalli, L’età della luna, parte quarta, p.207)
Ci siamo lasciati sedurre dal rifiuto del metodo, da una certa geniale improvvisazione. La poesia fatta di sfuggita. La poesia che spunta di notte o spunta solo in transe.(…) Noi crediamo sempre di trovare qualche tuberosa in mezzo agli sterpi, la perla nel pattume.(…) La nostra poesia nasce da giornate scempie, nasce senza fondamenta sopra un cumulo di detriti, su un terreno di riporto. Non si può fare del poeta uno speaker e nemmeno un sacerdote. Ma riesce molto difficile fare qualche conquista a un esercito di accattoni. È impossibile reggere una tribù soltanto con parabole e proverbi, senza ricorrere alle leggi. Che cosa noi invidiamo ai Verlaine, ai Nietzsche, ai Campana? Non tanto la loro poesia quanto la loro vita. Una équipe di poeti può diventare una équipe di burocrati. Forse è l’unico rimedio per salvare la poesia. Per salvare la poesia bisogna formulare una disciplina, una regola, trasformarla in Istituto, strapparla alla voluttà delle hobbies. Trasformare la pleiade in rigorosissima staff, magari in confraternita.(…) Non è più possibile fabbricare un Poeta da un vagabondo, da un lazzarone, da un degenerato. È più probabile che spuntino dai seminari e dai politecnici.(…) Bisogna garantire ai poeti la libertà, che è il contrario preciso del libertinaggio. Bisogna combattere l’equivoco del maledettismo, dei ladri di fuoco, dei figli del Sole. Farla finita coi miracoli esecrabili.
(L.Sinisgalli, l’età della luna, parte quarta, p.213)
Penso che uno dei migliori doni che si possano fare a un amico consista nel regalargli un libro che ci abbia colpito, entusiasmato, per poterlo con lui condividere, discuterne, scambiare reciproche opinioni (il libro di un terzo naturalmente, per evitare il classico ripiego del “pro domo sua”). Questo è quanto è successo per “Tutte le poesie” di Leonardo Sinisgalli (Oscar Moderni Baobab, Mondadori, 2020), libro che comprende quasi integralmente tutta la produzione poetica dell’autore: qui è presente la raccolta “L’età della luna”, strutturata in più parti, alcune in versi, altre in prosa con una forte matrice poetica di fondo. La parte quarta, in particolare, “L’immobilità dello scriba” verte essenzialmente sul ruolo, sulle ragioni, sul compito (tutti aspetti che non si può dare per scontato che debbano in realtà caratterizzarla) della poesia. Di questo si vuole qui ragionare, dibattere, interagire fra di noi e con i lettori sperando che grazie ai commenti possano vivificare quella che, altrimenti, si ridurrebbe alla staticità di un articolo che non è pensato, qui, a senso unico. Ecco: oggi si parla di poesia, del perché della poesia, consapevoli che quanto scriveremo è solo un tentativo mancato di chiarire il problema, il ritrovamento di qualche particella subatomica che da sola naturalmente non consente di concepire una teoria strutturata, chiarificatrice.
Partiamo allora da alcune considerazioni di base. L’immagine dello scriba fa senz’altro riferimento a un sostrato di fondo di tipo mistico o ieratico (basti pensare al ruolo strategico ricoperto dallo scriba ad esempio nella civiltà egizia, un ruolo che potrebbe dirsi di sacerdote della parola), ma in realtà può essere ricondotto anche all’immagine dell’esecutore, di qualcuno che opera per conto altrui, mano inconsapevole eterodiretta: “Scrive quasi controvoglia sul tavolo dove mangia” (pag.207), concetto ribadito più avanti con la similitudine fra scriba e ciabattino che, in modo irriverente e ironico, mentre sta realizzando il proprio lavoro, “sopra le suglie le lesine lo spago la pece apre il cartoccio di sarde”. La scrittura se da un lato è frutto di un esercizio attento dello sguardo, di scandaglio della realtà da cui trae spunto (pag.207), essa mantiene sempre una sua componente di indecifrato, uno scarto che spinge la mano oltre ciò che, nella sua immediatezza e volontà razionalistica, intenderebbe fare: e lo sanno bene tutti gli autori, quando si trovano spiazzati e sorpresi all’apparire di certi versi, che sembrano emergere da un inconscio (individuale o collettivo poco conta) che non sospettavano, un altro da sé che, tuttavia, era radicato in loro. È in questi rari momenti che si può dire con il nostro: “Abbiamo gonfiato la felicità di un istante fino a illuderci di riempire una vita“ (pag.213), con quella parola che sbalza improvvisa sul foglio: illusione, di leopardiana memoria, quella che permette di reperire “la perla nel pattume” (pag.213). Sta qui il fascino vero della poesia? La sua unicità?
Se è dunque vero che “non si scrive per divertirsi” e nemmeno “per impegno” (pag.207), negando quindi entrambi gli estremi, non si può però pensare a “la poesia fatta di sfuggita” (pag.213) e nemmeno frutto di qualche rivelazione epifanica: come non concordare che “Non si può fare del poeta uno speaker e nemmeno un sacerdote”? (pag. 213) (aldilà delle continue riemersioni e seduzioni di quella poesia orfica che è dura a vincere e, certamente, declinata con la giusta voce, quella credibile, di chi la scrive per vera ispirazione può portare a esiti tanto elevati e insuperati che la sua replica o la sua imitazione non possono se non suonare un’involontaria adulterazione o, paradossalmente, una parodia). Ma occorre sempre prestare attenzione, tenere alta la guardia: ecco il vero insegnamento, ironicamente allusivo, di Sinisgalli. Infatti ricondurre, sull’altro versante, tutto a “disciplina”, a “regola”, sperando che la poesia possa nascere da una educazione specifica alla stessa, facendola spuntare “dai seminari e dai politecnici” (pag.213) – insomma una poesia preconfezionata a tavolino anche se impeccabile dal punto di vista formale e, eventualmente, contenutistico – rischia di farci dimenticare il nesso imprescindibile con la vita, la specificità che in essa risiede e che non di rado può diventare eccezionalità, della vita in sé e della scrittura che permea. Se quindi si deve “farla finita coi miracoli esecrabili” (pag.213) non si può nemmeno pensare ai poeti come a una “équipe di burocrati” della parola (pag.213) – con buona pace delle scuole di scrittura più o meno creativa o normativa -, soldatini obbedienti del linguaggio, schierati in fila secondo il galateo dell’opinione comune o il vademecum dei riemergenti movimenti e scuole (spesso settari e narcisistici): la chiamata alla libertà di Sinisgalli è autentica, è una presa di consapevolezza che non sfoci nell’arbitrio, nel “libertinaggio”, che in definitiva è la svendita della parola, la sua negazione. La poesia vera nasce da “un cumulo di detriti, su un terreno di riporto” (pag.213), dal compostaggio se preferite. Ne saremo davvero capaci?
(fotografia da wikipedia di pubblico dominio)
Il rapporto con la scrittura è come quello con qualcuno che è in confidenza con noi, con cui di solito si va a finire a letto e si condivide il piacere. Ma il coinvolgimento e la finalizzazione spesso si rimandano di giorno in giorno: le domande non espresse sulla disponibilità dell’altro, un pudore di fondo mai redento dall’abitudine, il fare finta che si è troppo impegnati con attività maggiormente necessarie, l’apprensione per un coinvolgimento totale nell’unico atto che forse veramente conti…
Ci si arriva dunque, allo scrivere come all’atto sessuale, ma attraverso un percorso tortuoso di distrazioni e di rinvii. Infine arriva il momento, ci si ferma e…si scrive. “L’immobilità dello scriba è la sua libertà, la sua vittoria sul caos”(p.207), riflette Sinisgalli, ma appena dopo annota: ”non scrive per divertirsi, si taglierebbe le mani.” Fertile contraddizione. Nel momento in cui ci raccogliamo e ci dedichiamo all’opera, la posizione scelta – quella dell’immobilità come concentrazione assoluta- ci riempie della libertà del creatore, come ordinatore di una materia pulsante e informe che si riesce a fissare. Questa predisposizione non è leggera, né futile, ma necessaria come la fame, qualcosa da cui si vorrebbe piuttosto fuggire, umile e proficua come un lavoro artigianale che produca le utili scarpe che portiamo.
Non si è per niente soli, ma si lavora con la dedizione più totale con il corpo dell’opera o dell’amante e se ne è lavorati. Nello scrivere e nel fare l’amore ci si dimentica di se stessi e nello stesso tempo è quello il momento della vigilanza estrema.
“Ci siamo lasciati sedurre dal rifiuto del metodo, da una certa geniale improvvisazione, la poesia fatta di sfuggita. La poesia che spunta di notte o spunta solo in transe”(p.213). Sinisgalli è un amante serio, rifiuta la sveltina, la retina che cattura farfalle e sottolinea un impegno arduo: ”La nostra poesia nasce da giornate scempie, nasce senza fondamenta su un cumulo di detriti, su un terreno di riporto. Non si può fare del poeta uno speaker e neppure un sacerdote”. Né facile cronaca, né pretenziosa religione. Il paragone iniziale con il ciabattino, questo richiamo all’instabilità e a una natura detritica, faticosa della poesia, sembra indicare un’attitudine che è nello spirito del tempo di “L’età della luna”. È il 1962. Sinisgalli non percorrerà mai vie arditamente sperimentali, ma l’accenno al ‘labor’ della scrittura, piuttosto che a una sua sacralità vocazionale, potrebbe avvicinare l’intenzione del poeta lucano a quella di Sanguineti e del gruppo che si prenderà la responsabilità di fare avanzare la poesia verso territori materialistici: il gruppo 63.
La presa di distanza da poeti del passato come Verlaine, Nietzsche, Campana, di cui si ammira la vita piuttosto che l’arte, è piuttosto pretestuosa, ma serva a dimostrare la tesi che la poesia sia più metodo che sregolatezza. Le parole usate sono deliberatamente provocatorie:“ Non è più possibile fabbricare un Poeta da un vagabondo, da un lazzarone, da un degenerato. È più probabile che spuntino dai seminari o dai politecnici”. Già: Leonardo Sinisgalli non era prete, ma ingegnere e appassionato di matematica. Ma andiamo alla pagina successiva.
I critici chiedono alla poesia concetti e sistemi. Leggo acute analisi, m’informo di tutte le operazioni chirurgiche, alcune assai delicate con la benda davanti alla bocca per arrivare al midollo del povero poeta smidollato. Gli attribuiscono capacità nervose, capacità intellettuali, capacità dialettiche.. Cercano la logica nei poeti. E pensare che la filosofia dei poeti è una così povera cosa al confronto della loro poesia. La loro scienza non giova alla poesia quanto giova la loro innocenza. Il mio sforzo per scrivere versi è stato appunto il disprezzo della mia saggezza. (…) Credo di non sapere ancora quale sia precisamente il mestiere del poeta. Non conosco una sola regola valida in ogni caso. I risultati buoni o cattivi non saranno mai prevedibili. Non ho mai chiesto alla poesia di aiutarmi a risolvere i miei problemi. La poesia, l’ispirazione, non ho avuto la possibilità e la pazienza di conformare il mio disordine ai loro capricci. Ho aspettato a ore fisse. Il poeta non predispone ma raccoglie. Le sue predilezioni possono sembrare sconcertanti,, egli fabbrica le gerarchie sul momento. Non cerca la lepre, non cerca l’unità.. I versi hanno una concatenazione che non si rivela in superficie. Convergono verso un punto che le stratificazioni possono nascondere a qualunque scandaglio, un cuore introvabile. Spesso il critico è quel piccolo animale che strisciando sulla sfera non saprà mai giungere al centro perché non ne conosce la formula, la forma.
(L.Sinisgalli, l’età della luna, parte quarta, p.214)
Come nel più classico dei procedimenti dialettici che proceda per tesi e antitesi, Sinisgalli, a proposito dei critici, sembra ritornare sui propri passi per difendere l’autonomia dell’essenza poetica: “Cercano la logica nei poeti. E pensare che la filosofia dei poeti è così povera cosa al confronto della loro poesia! La loro scienza non giova alla poesia quanto giova la loro innocenza. Il mio sforzo per scrivere versi è stato appunto il disprezzo della saggezza”(p.214). “Disprezzo della saggezza” è un termine di ascendenza mistica, per ritornare al riferimento con cui iniziava questo dialogo Fabrizio Bregoli, è un votarsi a una follia che di solito è quella dei santi nella cosiddetta ‘imitazione di Cristo’.
Questo non è uno studio a due mani su Leonardo Sinisgalli e a questo punto è lecito, tramite la sua voce, porre alcune domande che rivolgiamo ad altri poeti che su questi passi vogliano riflettere.
Esistono certezze che servano alla struttura della poesia? Il poeta predispone un piano o piuttosto accoglie frutti già maturi dall’arbor vitae dell’ispirazione? E cosa significa, citando letteralmente, che il poeta “non cerca la lepre, non cerca l’unità”? O che la poesia ha una serie di stratificazioni che nascondono al lettore “un cuore introvabile”? I risultati buoni o cattivi saranno prevedibili?
Ho ricevuto alcuni mesi fa da Fabrizio Bregoli: “Leonardo Sinisgalli. Tutte le poesie”. Gliene sono grato perché dietro l’atto di generosità c’è la bellezza del dono. Ho proposto allora – non lo si farebbe mai con un regalo accettato, non si discuterebbe col donatore di una cravatta, del pregio dei tessuti e dei disegni – di sviluppare un dialogo su alcune pagine del libro che mi avevano colpito, considerazioni profonde e ancora oggi valide sulla vocazione e sul metodo della poesia. Abbiamo deciso di pubblicare su casamatta questo scambio di idee e di allargare il cerchio virtuoso e munifico a tutti coloro che vorranno entrarvi attraverso la discussione dei temi che abbiamo evidenziato. Li ringraziamo fin da ora.
Grazie per questa discussione molto interessante su un soggetto cosi’ complesso. Mi sembra che il dibattito si ponga anche spesso nell’arte, altrettanto intenso ed irrisolto. A me sembra che sia all’interno di queste tensioni riguardo ai dialoghi possibili tra le metodologie, gli approcci e le forme di espressione che poi si sviluppino le opere e gli artisti che sfuggono alle definizioni invece di abbracciarle completamente. Alcuni riescono a non farsi mai trovare dove ci si aspetta che siano. Penso a Carl Andre, da sempre considerato e catalogato come ‘minimalista’ e da sempre opposto alla rigida procedura concettuale e gerarchico-purista dei minimalisti e che per confutarne il precetto di base dice “ nel mio caso l’arte non parte da un’idea ma da un desiderio ancora imprecisato”. Cosi’ il suo lavoro pur in parte rispettoso del rigore organizzativo e di scelta di forme e materiali del canone minimalista, viene d’altro canto esposto a terra e si e’ autorizzati a camminarci sopra. A volte la disposizione degli elementi e’ leggermente organica con qualche scarto rispetto alla precisione geometrica formalista. Le influenze filosofiche taoiste a lui care si mescolano a quelle materialiste che hanno comunque una parte fondamentale nel suo percorso. Coloro che percorrono queste zone indefinite della percezione tra regola e intuizione, canone e sovversione, riescono a mantenere l’ambivalenza e l’apertura.
E’ interessante questo tuo raffronto fra il mondo dell’arte e della poesia. Casamatta vuole essere in effetti ‘edificio’ di confine in cui le varie espressioni creative della cultura possano incontrarsi e comunicare. Grazie, Alessandro, anche per questa preziosa indicazione su un artista da me non conosciuto, Carl Andre. Mi piace l’idea di disporre rigorosamente un’opera e poi permettere al pubblico di camminarci sopra.
POESIA E SCIENZA
La scienza procede per dubbi, rimettendo in discussione spesso tutto ciò che fin a quel momento si pensava fossero certezze. La scienza procede per tentativi, spesso dovendo ricominciare tutto da zero, con umiltà e abnegazione. Cercando virtù, proprietà, riscontri delle più bizzarre teorie nella semplice complessità dei dati empirici. Così chi, tra scienziati e politici, volessero imporre le istanze scientifiche del momento come dogmi, commetterebbero un’aberrazione della scienza e un’alterazione della realtà e della verità. Tanto più imponendo autoritariamente e per partito preso, come in questo periodo pandemico, un Dio vaccino come unica salvazione benedetta dell’intera umanità, fatta però da persone una diversa dall’altra, ciascuna con il proprio equilibrio, le proprie convinzioni, la propria storia, fede, cultura, tanto più usando allo scopo e in nome della Scienza medesima subdoli ricatti e addirittura minando i diritti costituzionali.
Lo stesso vale per la poesia. Anch’essa procede spesso per dubbi, tentativi, esperimenti. Ogni volta ricominciando tutto da zero. Tenendo presente (ma anche dimenticando o meglio metabolizzando) i versi di tutti coloro che ci hanno preceduto, soprattutto dei classici e dei maestri e, come dice Sinisgalli, facendola nascere “su un cumulo di detriti, su un terreno di riporto”. La Poesia non può avere dogmi e anche se talvolta le si attribuiscono proprietà terapeutiche, gnoseologiche, magiche e rivelatrici, in realtà è lavoro duro e faticoso, fatto di ricerca di sé in profondità, di sguardi sul mondo oltre il convenzionale, arditi, originali, talvolta sublimi, attraverso una scelta accurata delle parole, dei suoni, della struttura. La poesia è fatta di fallimenti. Ma anche di illusioni, di obiettivi alti a cui tendere, per quanto sia compito sempre più difficile da ottenere: risvegliare le coscienze, sorprendere, tentare lingue o tematiche nuove, analizzare la complessa realtà del mondo che ci circonda, mantenendo la purezza d’intenti, il coraggio e innocenza del ragazzo che, forse, un tempo siamo stati.
Tra l’ultima parola detta
e la prima nuova da dire
è lì che abitiamo
(Pierluigi Cappello)
Al di là di ogni nostra pretesa di comprendere i meccanismi sempre misteriosi della genesi poetica, credo che ad un frequentatore di poesia non sia necessario porsi infiniti interrogativi destinati a restare irrisposti. Ogni scrivente ( non definibile poeta fino a che un lunghissimo tempo e milioni di lettori non lo abbiano nominato tale). L’unica domanda che personalmente mi faccio leggendo un testo poetico è sempre la stessa: mi ha coinvolto profondamentedal punto di vista umano, morale, estetico ? Tutto il resto è ininfluente, la biografia, gli studi, i titoli, l’opera altra, perfino il nome dell’autore. Omero non è forse mai esistito, forse sarà stato un team di vari poeti nel tempo. Resta la grandiosità e universalità dell’opera attraverso i millenni.
Per errore si è cancellato il resto della frase:
Ogni scrivente (…) resta indissolubilmente legato al possibile svelamento del proprio daimon-talento-duende, capacità rarissima di aprire e rivoluzionare le banali visioni del reale.
Grazie Annamaria, per il tuo vivace contributo. Di questo appunto stiamo discutendo: la priorità del testo-struttura, rispetto alle altre possibili sovrastrutture ( ad esempio la biografia dell’autore). Di fronte alla stupefazione di un fiore sbocciato e del suo mistero, non andremo certo a raccogliere notizie botaniche intorno alla sua composizione e alla sua specie. …une fleur qui me dit son nom, come scriveva Rimbaud. Certo, a volte si scrivono poesie in stato di grazia, altre volte occorre arrivare a una composizione artigiana. Lo spiega molto bene Giacobbi nel suo articolo su Poe, presente in questo numero.
A proposito di cosa sia la poesia e a che cosa serva mi viene in mente un ricordo di Liliana Ugolini. Mi raccontava di aver smesso di partecipare a una rassegna annuale di poesia all’interno della quale a ogni poeta veniva puntualmente chiesto: “che cos’è la poesia?”.
Mi accodo dunque a chi mi ha preceduto nei commenti alle riflessioni di Paolo, a partire dal pensiero di Sinisgalli, anche per me si rimane in territori indefinibili del sentire, del poiein.
Che cos’è? Domanda sbagliata, perché non ha risposta, ma comunque ineludibile, se, sotto sotto, ogni poeta, ogni movimento artistico, ogni critico, ha una sua proposta, più o meno nebulosa, più o meno consapevole. Diceva comunque Luciano Anceschi che il poeta è colui che ne sa meno della sua poesia, forse riservando una maggiore cognizione al critico; ma di fatto indicando quanto inafferrabile allo stesso artefice – oh!, non in senso dannunziano! – sia l’opera su cui lavora. Che non vuol dire certo che la poesia arrivi più o meno oniricamente sugli azzurri cavalli dell’Ispirazione, quindi di un’inconsapevolezza sibillina, da vate, da possessione sciamanica. C’èinfatti tanto lavoro – spesso: sempre Anceschi diceva che a volte il lavoro di revisione tecnica avviene più o meno consapevolmente nella mente del poeta, per cui, quando butta giù le righe, esse sono già a posto. Oppure nasconde, cancella, nega tutto il lavoro attorno alle prime parole scritte-pensate ‘di getto’, quasi se ne vergognasse, come segno di un operare ‘troppo pratico’, poco orfico, poco santificante. Di tante interviste a poeti che ho letto, di tante poetiche, di tante dichiarazioni sul proprio fare di poeti, non ne ricordo una che osasse mostrare i ‘panni sporchi’, che raccontasse le cancellature, le prove e riprove, le contraddizioni, Eppure, quando qualche ‘brutta copia’ ci arriva per caso fatale, come certi autografi di Leopardi – comunque di ultimissima stesura probabilmente -, ci apre come una rivelazione proprio della grandezza del risultato finale. Pensiamo solo alla correzione dell’ultimo verso dell’Infinito. La scelta di un altro termine, la messa a punto di un accento, la cancellazione di ‘un in più’ che non si sa come ma NON ERA NECESSARIO, questo è ancora parte di quel misterioso fare e pronunciare di cui consiste la poesia. Da dove viene? Come tutti, non lo so, ma penso che potrebbe nascere in quel luogo in noi dove matericità sensitiva e astrazione loica ( senza resuscitare divisioni tra cogitans ed extensa di vecchia e superata data) si fondono e confondono e diversificano in tumultuosi tempestosi marosi… un luogo laggiù dell’inconscio, dell’Es o che so io… per intenderci quello che i grandi scienziati del cervello e i fisici e… gli ingegneri… e… sostengono che non esiste: ‘la mente’ inventata dagli stregoni della psiche. Quindi, deduciamo il deducibile – sempre a mio parere – : la poesia viene da un non-luogo, da un non-esistente, da un’isola che non c’è come quella di Peter Pan. Mi sta bene.
Ringrazio per questo intervento che ricorda un grande critico ora un po’ dimenticato come Luciano Anceschi. D’accordo sull’idea che l’ispirazione non sia una “possessione sciamanica”, ma come l’eruzione di un materiale magmatico , nato dall’osservazione del mondo e dalla propria predisposizione psichica, che viene fuori quando è il momento di venire fuori. Certo, gli eventi esterni sono dei potenti catalizzatori e tirano per la maglia il poeta reticente:- Oh, guarda un po’ cosa sta succedendo intorno, non te ne frega?-. In un certo senso – validissima la definizione per i tempi bui che stiamo attraversando, ma anche proprio in generale – la poesia a mio parere è sempre una forma di ‘indignatio’.