LA RETHORICA NOVISSIMA DI GUALBERTO ALVINO: L’EFFETTO FARFALLA DELLA PAROLA POETICA, di Fabrizio Bregoli

(Immagine in evidenza: copertina del libro, Il ramo e la foglia Edizioni, 2021)

Non è impresa semplice parlare del nuovo libro “Rethorica Novissima” (Il ramo e la foglia Edizioni, 2021) di Gualberto Alvino, critico letterario affermato, poeta originalissimo e colto che concepisce la scrittura poetica come lavoro profondo sulla parola, in un’ottica di ricerca e di sperimentazione che, senza nessun epigonismo, possa restituire la poesia al suo ruolo originario e costitutivo, scevro da sentimentalismi, stereotipie, opportunismi. Credo che parlare di questo lavoro sia l’occasione soprattutto per chiedersi: che cosa può ancora dire oggi la parola poetica? Quali sono i confini che può darsi? Quali le forme che può prendere? Quali i contenuti, se ci sono, che può trasmettere? E Alvino ci propone un lavoro di poesia e critica insieme, se non addirittura un esperimento filologico in versi, un lavoro ardito e spiazzante che sfiora, consapevolmente, il grado zero della scrittura poetica, entra nelle sue faglie: “è che il testo copre cripta non apre nessun dubbio” (pag.85).

Assistiamo a una scrittura ricca di riferimenti, citazioni, omissioni volute, plurilinguismo con innesti di tecnicismi anche dal contesto scientifico (come in “Humanitas” per l’anatomia), pastiche e calembour, doppi sensi e controsensi, frequenti scardinamenti del piano sintattico dal piano metrico, frasi lasciate a metà: il tutto contribuisce a un materiale magmatico e ribollente di complessa classificazione e somatizzazione che, come bene riassume Francesco Muzzioli nella sua attenta prefazione, diventa una rappresentazione o, meglio, una dizione consapevole del “disordine”, elemento distintivo e caratterizzante della contemporaneità in cui la parola è soggetta a dispersione, svalutazione mass-mediatica fino alla sua riduzione a slogan, impiego distorsivo e manipolatorio, falsificazione sistematica, fraintendimento e abuso, storpiamento e sgrammaticatura (si veda emblematicamente “Affetti di scanner”, pag. 88, dove la storpiatura è evidente fin dal titolo). Il quadro che ne nasce è inquietante, disarmante, privo di coordinate:

 

le sinapsi sono state recise credo ormai da parecchio

che succede? dicono qualcosa

specie quello alto colla spilla di rame

sul dorso la lingua triforcuta

un ronzio cela il viso nel bavero dando scontato

a quanto pare che abbiamo già benché

sappiano fin troppo bene non vorrei dirlo

(“Prima della cosa”, pag.67)

 

La scrittura diventa allora una trasposizione lucida di questa “teoria del caos” in cui la parola si trova perennemente sull’orlo dell’abisso, interrotta prima del precipizio, sospesa per stato di necessità; è sufficiente una minima variazione (il ben noto “effetto farfalla” di Edward Lorenz) a lasciar intuire la catastrofe che incombe su di lei, la sua impossibilità oggettiva a rimanere illesa: solo una parola che voglia compromettersi, fino a giungere al limite estremo della sua praticabilità, della sua comprensione sistematica e sistemica, può essere ancora una parola viva, capace di dire e di dirsi. Solo una parola lesa, oltraggiata (anche nell’accezione zanzottiana di “oltre” “oltraggio”) recupera la sua dignità, può rinunciare a un involontario mutismo: quello della inutile proliferazione di sé. Detto, molto più efficacemente con i versi di Alvino:

 

saper scrivere bar pasticca piccoletto sbracato

in un testo sorvegliatissimo

una pluralità d’accezioni fino a totalmente smarrirsi

ecco qui la scommessa non c’è rimedio

(Rethorica Novissima, pag.27);

 

1      perdere aura

2      annientare sacralità testo

3      livellare tono

4      normalizzare dettato senza

        sdegnare acidi sgradevolezze

5      aborrire enfasi autocelebrativa

6      sagacia degli accapo frazionanti spaesanti

(“Questioni preliminari (esacalogo per aspiranti poeti”, pag.33)

 

Mai come per altre espressioni poetiche credo che si possa dire della scrittura di Alvino che forma e contenuto diventano la stessa cosa, anzi è la forma stessa il contenuto del discorso poetico: significante e significato si sovrappongono annullandosi reciprocamente e, paradossalmente, solo così riappropriandosi di una funzione eidetica. L’asperità comunicativa e la ricerca formale condotte alla loro estrema conseguenza, a una distanza infinitesima da quell’orizzonte degli eventi che tutto ingurgita e macera, è l’unica strada, per il nostro, per evitare la chiacchiera o, peggio, l’esito retorico (aggettivo qui da intendere nel senso comune di banale, scontato) della parola poetica. Distinguo che si istituisce, ironicamente, fin dal titolo, in cui la forma più accreditata grammaticalmente di “Rhetorica”, alla latina, diventa qui “Rethorica”, forse proprio perché siamo di fronte a una retorica revisionata, che non cerca di convincere, che rinuncia a tutta la sua impostazione normativa per non diventare, vanamente, oratoria, sermone, pistolotto in poetichese; “Novissima” è invece anche omaggio alla Neoavanguardia, scuola di riferimento, qui però attualizzata al nuovo millennio della rivoluzione tecnologica e informatica con un’adesione quindi, di sostanza, ai suoi procedimenti più che, di facciata, in una mimesi inapplicabile.

È una poesia, quella di Alvino, che privilegia la forma ampia con poesie estremamente articolate e composite, fino alla forma del poemetto in “Humanitas”, forma più adatta a rappresentare quel disordine di cui si diceva, ma senza disdegnare anche la forma epigrammatica con improbabili titoli-dediche in cui è difficile dire se il referente sia di pura immaginazione o sia stato effettuato un sapiente paludamento che smaschera quanto basta; qui la concisione amplifica l’effetto satirico e pungente della scrittura di Alvino con una poesia quasi-aforisma che diventa anche giudizio critico in pillole, in versi:

 

sissì sissì va be’

ma la scrittura veh

la letteraria critica

è un altro par di manica

(“A Rafaelalatro”, pag.42)

 

Ritornando alle domande che ci siamo posti all’inizio credo che si possa affermare che la scrittura di Alvino ci propone una poesia della disillusione, consapevole ormai dell’ovvietà di tutti i suoi procedimenti stilistici e formali più frequentati e navigati nei secoli, a partire dalle sue origini, una poesia che si auto-decompone e si seziona (ecco allora anche i riferimenti anatomici) nel tentativo di una tassonomia non definitoria, in una forma di scrittura apparentemente non mediata in cui l’adesione del lettore può avvenire solo per condivisione di fini, più che per banale comunanza di contenuti affettivo-esistenziali o di affinità elettive: “gli sfinteri sono ancora da esaminare” (pag.62).

Tutte queste considerazioni ci paiono bene riassunte in questi ultimi versi che proponiamo, sempre tratti dal libro:

 

più sobria signori la tenuta stilistica

render poesia come dire?

nuda insomma

essenziale

allusiva

ormai non riserva sorprese

(“Detto del fine amante”, pag. 37)

 

io dico l’arte ha il dovere preciso

di costruire immagini sottrarre scavare

tane tale indecifrabilità e esorbitanza

non achevée ma solo interrompue

senza reciderne l’origine

non sarà forse inutile ribadire che il sistema

ergo si attua a onta delle additate aporie

col solito rituale

condensazione/spostamento

trasposizione/simbolizzazione

a stato di vigilanza perenne

(“Mal di testo”, pag. 73)

 

Fabrizio Bregoli

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