IN AFGHANISTAN di Nella Roveri

(l’immagine è tratta da Wikipedia)

Appartengo a quella generazione che, giovane all’inizio degli anni settanta, partiva su un mezzo malsicuro, spesso un vecchio furgoncino, per attraversare i Balcani (allora Yugoslavia), fermarsi a Istanbul, entrare in Iran e da lì raggiungere l’Afghanistan, ancora monarchia, per restare inebriati dalla sua storia, dai suoi minareti, dal paesaggio e dalla gente. Poi si raggiungeva Peshawar, attraverso il mitico Khyber pass e, dal Pakistan, l’India. Il mondo appariva tutto quanto camminabile; ti fermavi, vestivi come eri solito, esploravi cibi e consuetudini, guardavi la gente coi suoi riti e scambiavi parole, pareri, storie.
Poi la Russia invase l’Afghanistan e fu guerra, mentre in Iran cominciava la rivoluzione islamica. I due paesi furono interdetti all’ingresso di viaggiatori comuni e finì l’epopea del viaggio in auto verso l’oriente.
Se in Iran, indossando un velo, se non proprio il chador, e con limiti e controlli, è stato possibile ritornare, in Afghanistan si è innescata una guerra che non è mai finita: dieci anni con i russi, fino alla vittoria dei mujaheddin che, pur appartenendo a differenti tribù, spesso in contrasto tra loro, riuscirono a costringere l’armata sovietica alla ritirata. Poi la guerra civile si accese tra le diverse etnie e armi su armi venivano (e vengono) prodotte sul confine con il Pakistan. Le ho viste nel 1991 a Darra, nei pressi di Peshawar, esposte in vetrina dagli artigiani costruttori insieme a montagne di hashish impacchettato nella stagnola. Nel 1996 arrivarono al potere i talebani, la corrente fondamentalista del mullah Omar che propugnava la diffusione di una rigida interpretazione della Sharia, della legge islamica.
Dopo l’attacco alle torri gemelle dell’11 settembre 2001, gli Stati Uniti entrarono in Afghanistan, trascinandovi altre potenze occidentali alleate, tra cui l’Italia. Vent’anni di permanenza in quel paese, migliaia di soldati che vi si sono avvicendati, miliardi e miliardi di dollari spesi e, fino a giugno, l’idea, sbandierata e ipocrita, che un governo civile potesse autonomamente avviarsi. Suona grottesco oggi il nome dell’operazione, Enduring freedom, libertà duratura.
Nei giorni scorsi, e rapidissimamente, i talebani si sono ripresi l’intero territorio afghano e ora i loro capi siedono nelle sale del palazzo di governo di Kabul, lasciate vuote dal presidente Ashraf Ghani fuggito in Uzbekistan, mentre le loro ronde, armate con le armi degli arsenali americani, seminano terrore per le strade e nelle case.
I media ne parlano, raccontano il caos che si è prodotto all’aeroporto di Kabul, la paura della gente, il desiderio di espatrio di molti. E raccontano il timore che l’imposizione della legge islamica, così come interpretata dagli “studenti coranici”, tolga di nuovo alle donne quei circoscritti spazi di libertà che in questi anni erano riuscite a guadagnare: la scuola, la possibilità di usare o meno la hijab o il burqa, il voto, l’accesso alle professioni… e quella parità di diritti con gli uomini che sarebbe dovuta cominciare con l’entrata in vigore della Costituzione del 2004. Tutto a carissimo prezzo. Aggressioni, assassini, sfregi, violenze di ogni tipo, subite tra le mura domestiche e fuori, continuano nonostante la legge, e la cultura tribale e patriarcale finisce con l’avere il sopravvento.
Sempre faticoso, doloroso e mai “duraturo” il cammino di libertà delle donne. Niente è scontato, niente è gratuito. Esiste, dal 1977, Il RAWA (Revolutionary Association Women Afghanistan), nato come movimento, dalla forte connotazione e consapevolezza politica, delle donne che lottano per la propria emancipazione in una società dominata dagli uomini. Nei campi profughi del Pakistan, dalla fine degli anni novanta l’associazione RAWA, che ha come portavoce in Italia il CISDA (Coordinamento italiano sostegno donne afghane), insieme ad altre organizzazioni, attiva la scuola per le donne, i bambini e le bambine, porta un minimo di soccorso sanitario, cerca di rendere più umane le condizioni di vita dei rifugiati e di promuovere nelle donne la consapevolezza dei diritti. In Pakistan si possono muovere e possono agire, ma non rinunciano a farlo anche in Afghanistan, dove queste azioni sono proibite e perciò praticabili, con enorme rischio, solo nella clandestinità. Al passaggio della frontiera tra i due paesi le donne del Rawa vanno e vengono, sotto il naso dei talebani. Il burqa, che copre interamente il corpo e il volto e che è stato imposto come strumento di negazione e di umiliazione, proprio il burqa diventa un passaporto. Al confine le donne non possono essere identificate, sono tutte uguali e sotto il burqa portano libri, quaderni, materiale sanitario. Sono quelle che gli uomini vorrebbero come fantasmi, ma i fantasmi che, si sa, attraversano i muri, non temono certo una linea di frontiera.
D’altra parte è mestiere femminile trasformare i limiti in punti di forza, capovolgere le condizioni di marginalità e impedimento in opportunità.
Il femminismo ci ha abituate a riflettere su quegli “scarti” culturali che diventano occasione per ribaltare stereotipi e ci ha portate a considerare le discontinuità, i vuoti, le rotture, le asimmetrie e l’assenza come una storicità originale, non confinata alla cronologia tutta visibile e tutta espressa della storia corrente fatta solo da uomini. Un bel pensiero, ma non esportabile, non proponibile alle donne afghane. Là rotture e assenze sono il frutto di una violenza primordiale che nasce in una cultura in cui tradizioni e patriarcato dettano la regola di vita. A queste si è aggiunta la prepotenza di governi occidentali che, nell’intento di stanare il terrorismo, hanno imposto le loro divise e disseminato tutto quel paese di armi, le stesse delle quali ora i talebani fanno man bassa. In un contesto di imposizioni, di attentati e di continua guerra, è straordinario e straordinariamente coraggioso che le donne affermino il bisogno di scuola e di lavoro e che trovino strategie per dare voce a quel bisogno. Da loro impariamo a ricominciare e guardiamo alla loro quotidiana fatica, al loro dolore e alla loro forza, senza esportare i bei concetti che la comoda realtà nella quale viviamo rende facili.
“Non credere di avere dei diritti”, ci dice Simone Weil, “non offuscare o deformare la giustizia, ma non credere che ci si possa legittimamente aspettare che le cose avvengano in maniera conforme alla giustizia; tanto più che noi stessi siamo ben lungi dall’essere giusti. Vi è un cattivo modo di credere di avere dei diritti, e un cattivo modo di credere di non averne” (Quaderni, II).

Nella Roveri

 

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